Amos Oz, Tra amici

Feltrinelli, 132 pagine, 14 euro

Gli otto racconti che compongono l’ultimo libro di Oz hanno in comune ambiente ed epoca, un kibbutz negli anni cinquanta e un piccolo coro di personaggi che vengono al proscenio in un testo e restano sullo sfondo negli altri. Confermano l’indiscutibile grandezza di quest’autore: asciutti e oggettivi, sono belli in sé – cechoviane storie di disagio, di ricerca, di nevrosi dentro la prova di un modello di convivenza che non è facile sostenere – e mettono senza parere il dito nelle piaghe aperte di un’epoca e in alcune di oggi e di sempre, in un crescendo pacato, privo di grida e furori, che allarga e rimanda senza averne l’aria, che coinvolge e provoca perché dietro queste storie che sembrano banali si mette alla prova la storia e si muove l’utopia. È alla fine che il quadro si chiarisce.

Nella penultima novella un ragazzo vorrebbe andarsene (“Non ce la faccio più; mi manca l’aria”) ma deve vedersela con le decisioni della comunità e si aggira irrequieto tra le rovine del villaggio arabo distrutto nella guerra, che dà il nome al racconto, ai cui margini il kibbutz ha potuto crescere. Nell’ultima muore un giusto che ha dedicato la vita alla diffusione dell’esperanto, e sembra scomparire con lui una generazione che ha creduto in un mondo di fratelli dall’unica lingua. “Non ce ne sono quasi più di persone così”, ma quel “quasi” è molto importante.

Internazionale, numero 954, 22 giugno 2012

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