Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice
Sellerio, 280 pagine, 14 euro
Ci sono magistrati che credono nella giustizia e magistrati che applicano leggi destinate alla difesa degli interessi delle classi dirigenti e non di quelle subalterne. Non è diversa la loro condizione, pur essendo più stabile, da quella dei politici e dei maestri dei mezzi d’informazione, e neanche la loro cultura. Dunque è questione anche lì di minoranze etiche e di maggioranze opportuniste. Fontana, 33 anni, in Per legge superiore ha già esplorato il mondo dei giudici, confrontando due Milano, quella del palazzo di giustizia e quella di via Padova e degli immigrati, nel loro faticoso tentativo di accettarsi.
Qui (con personaggi che passano da un libro all’altro) si tratta di due generazioni, il giudice Colnaghi e suo padre, morto partigiano, mossi da un’idea alta di giustizia e del dovere e del peso di esercitarla con tutti i rischi che ne derivano. Ma non si parla di oggi, bensì di un lontano 1981 (l’anno di nascita dell’autore) e degli ultimi fuochi di un terrorismo fascistoide che si diceva di sinistra. Merito dell’autore è interrogarsi sul passato costruendo con stile piano e salde riflessioni, e di affidarci un personaggio memorabile di giudice (una figura piuttosto rara nel suo ragionare sul giusto e il non giusto) dentro un contesto vivo e plausibile. È la storia di un’Italia che avrebbe potuto essere migliore, sconfitta dalle manovre del potere e dei suoi servi e dalle più isteriche delle reazioni.
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