Nel mondo chiamato carcere
Maurizio Torchio, Cattivi
Einaudi, 182 pagine, 19 euro
La parola cattivo viene dal latino captivus, prigioniero, ma anche, nel significato odierno, dice il Devoto-Oli, da captivus diaboli, prigioniero del diavolo e cioè del male. Si presume che Torchio non sia mai stato in prigione, ma ha scritto uno dei libri più belli sulla condizione carceraria o, per estensione, sulla condizione umana, raccontando carcere, carcerati e carcerieri, raccontando la claustrofobia di una società chiusa e passando dalla prima alla terza persona e da una parte all’altra dei confini del carcere/isola.
In coda al libro Torchio ringrazia opere e memorie di carcere su cui ha ragionato, dimenticandone varie, come i russi, Genet, e qualche film (Bresson, Becker, altri) e la constatazione di Petroni che “il mondo è una prigione”. Ma scava, capisce, racconta il carcere come pochi hanno saputo fare, e il suo è un romanzo e un saggio (Toro, un sequestro e un omicidio, le donne – fuori–, Comandante, lo spazio, i cani…) affrontati con una scrittura secca e staccata, dura, nuova. “Il carcere esiste”, “Il male c’è”, “Tutti si fanno del male”, e la maledizione della prigione (solo di quella?) è “non potersi fidare mai”.
In mezzo alle cento sciocchezze settimanali degli italici scriventi, ecco uno scrittore vero. Segnalammo qui cinque anni fa Piccoli animali, scene di orfanezza. Per scrivere Cattivi Maurizio Torchio ha speso cinque anni, e si sente.
Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2015 a pagina 80 di Internazionale, con il titolo “Nel mondo chiamato carcere”. Compra questo numero | Abbonati