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Lettere di uno sconosciuto, la rivoluzione culturale mal raccontata


Molti anni fa, all’inizio dei novanta dell’altro secolo, si assistette entusiasti all’affermazione di una generazione di giovani scrittori, registi, attori, artisti cinesi che, con sapiente dosaggio di rigore morale e raffinatezza formale lasciarono sperare anche in una Cina migliore, post rivoluzionaria e però autonoma nelle sue aspirazioni. Il tempo li ha quasi tutti piegati alle regole di una nuova società, cinese e globale, più che capitalista, che nel cinema ha premiato l’astuzia (e spesso la spudoratezza) invece che la profondità.

Il caso di Zhang Yimou è abbastanza esemplare di questo “recupero” alle leggi del mercato di un autore che, in Sorgo rosso (il suo primo film, da un romanzo di Mo Yan), in Lanterne rosse o in Jou Dou, mostrò ben altro talento che in questo Lettere di uno sconosciuto, dalla regia piatta e incapace di dar sangue e forma a un’idea che in partenza non era per niente rozza. La storia non perdona, e le sue ferite sono incurabili.

Una famiglia di piccoli intellettuali al tempo della rivoluzione culturale maoista (mea culpa: anche chi qui scrive ci credette, per un breve tempo). Un uomo deportato, che riesce però a fuggire. Una figlia che lo denuncia, perché la fedeltà al partito conta più di qualsiasi altra. Una moglie che non perdona, e che aspetta e aspetta, fino al punto di perdere dolcemente la ragione e non riconoscere lo sposo quando il partito dichiara decaduta anche la rivoluzione culturale e quello è liberato e ritorna. L’uomo si adatta al ruolo di amico, sperando sempre che la moglie lo riconosca, cercando i modi perché questo avvenga. Li vediamo nell’ultima sequenza del film, già vecchi, lui che accompagna lei (Gong Li, senza la bellezza di un tempo, ma sempre bella) nelle inutili attese alla stazione del suo stesso ritorno.

Non sono pochi i film che hanno raccontato amnesie da guerra, sulla prima e la seconda mondiali (due titoli esemplari del secondo dopoguerra: Prigionieri del passato, Gli amanti del sogno). Si trattava di un magnifico pretesto per convincenti filmoni strappalacrime, ma Yimou è ormai così normalizzato che non riesce neppure a giocare quella carta, e sciupa una storia e delle situazioni che avrebbero potuto dare un melodramma politico trascinante, convincente. Sembra invece che non gliene importi granché, tanto fredda e stracca è la sua regia, priva di accensioni ma anche di profondità. Non è neanche un melodramma freddo, è la traccia di un film che avrebbe potuto essere e non è.

Sono tre i personaggi della storia. I due adulti sono affidati ad attori di forte carisma, che cercano affannosamente di dar corpo e sostanza a pallide figure monodimensionali di vittime della storia. Il terzo, la figlia, che pure avrebbe potuto essere il più tragico – la ragazzina che balla nel Distaccamento femminile rosso, celebre balletto dell’Opera di Pechino secondo i canoni classici che piacevano alla moglie di Mao – perché denuncia il padre e viene respinta dalla madre, resta il più fiacco. Anche se nella storia del novecento e delle sue dittature e dei loro ricatti, e certamente anche oggi in molte parti del mondo, conserva purtoppo una terribile attualità.

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