×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Sergio Sollima e un cinema che andava al sodo

Tomas Milian e Lee Van Cleef in La resa dei conti, 1966. (Album/Mondadori Portfolio)

Sergio Sollima, morto mercoledì 1 luglio a Roma a 94 anni, fu uomo di teatro, di cinema e di televisione tra i più intelligenti e generosi e “laici” del nostro sistema dello spettacolo. Era legato al genere in tutti i contesti. Lo era in teatro, con la commedia sentimentale in stile “telefoni bianchi”, anche come autore. Lo era al cinema, cui dette titoli che sono ancora vivi nella memoria di tanti, con il western all’italiana, il poliziesco e lo spionistico alla James Bond. E lo era in televisione, dove lanciò il grande revival di Emilio Salgari con il serial di Sandokan, uno dei trionfi internazionali della nostra tv, e con Il corsaro nero.

I suoi film migliori sono gli western, in particolare quelli con Tomas Milian della serie di Cuchillo, il giovane ed estroverso messicano (Milian era cubano) che si butta nella rivoluzione con contagioso entusiasmo, storie di “prese di coscienza” alla Čapaev ma per fortuna con le figure dei “commissari politici” molto annacquate, anche dallo stesso Solinas che pure molto ci credeva. I titoli? Faccia a faccia, La resa dei conti, Corri uomo corri.

Sergio Sollima (in piedi, al centro) sul set di Uomo contro uomo con Barbara De Rossi e Ray Lovelock, il 16 maggio 1988.

Nel poliziesco, che esiterei a chiamare nel suo caso, come in quello di Fernando Di Leo, poliziottesco, ricordo Città violenta con Charles Bronson, anche se si trattò di un film meno originale dei suoi western.

Insieme a Damiano Damiani, Sollima fu il più probo e responsabile tra i registi del cinema popolare di un periodo (gli anni sessanta e settanta) in cui il cinema politico si diluiva e sfibrava in spettacoli tonitruanti, e puntava a raggiungere un pubblico che era ancora di base e di massa attraverso film considerati “seri”, oppure con western e polizieschi “di denuncia” molto spettacolari e quasi sempre molto demagogici.

Si spiega la tenuta morale del cinema di Sollima ricordando che aveva in gioventù, allievo del Centro sperimentale di cinematografia, preso parte alla resistenza romana, anche se, dopo la guerra, rifiutò sempre di mettersi in prima fila nelle schiere del cinema di sinistra (quando era il cinema di sinistra a dominare), e preferì praticare un cinema non intellettuale e non neorealistico, fedele a una vocazione di artigianato che preferiva parlare al pubblico più vasto.

Forse amava più il teatro del cinema, ma fu più bravo nel cinema che nel teatro. Suoi pregi erano il dinamismo delle sceneggiature e non solo delle regie, l’andare al sodo senza perifrasi superflue, l’attenzione ai sentimenti primari che sono tuttavia sempre i più importanti, con quelli dei “buoni” – l’indignazione e la rivolta, l’amore e la solidarietà – attentamente distinti da quelli dei “cattivi” – l’avidità e la violenza. Nelle scene d’azione, era un degno allievo di Alessandro Blasetti e Riccardo Freda.

Molti anni fa intervistai Sergio Sollima, avendo anch’io goduto della visione di molti suoi film, e mi sembrò una bella persona, intelligente, con chiara coscienza dei suoi pregi e dei suoi limiti. Il figlio Stefano, a cui faccio le più affettuose condoglianze, lavora egregiamente per la tv di oggi, che è però molto meno egregia di quella del tempo del padre. Ha diretto la serie di Gomorra e sta lavorando a quella di Suburra.

pubblicità