A Teheran su un taxi neorealista
Jafar Panahi è un caso più unico che raro nel cinema contemporaneo: condannato dal regime iraniano a non fare film, ne ha già diretti clandestinamente tre, ed è riuscito a farli arrivare ai festival e mandarli in giro nel mondo. Le costrizioni hanno aguzzato il suo ingegno, e il cinema è diventato – come dovrebbe essere, se non sempre, almeno quasi – uno strumento di conoscenza e di lotta: l’arte è anche questo.
Confrontato con le melense e tranquille storielle di tanto cinema che vorrebbe affrontare i mali dell’uomo e del mondo in quest’era di mutazioni così profonde, e che è di fatto una delle mistificazioni più astute di un sistema delle comunicazioni come strumento del dominio (il buonismo è la peggiore delle ipocrisie inventate dal sistema che ci domina, forse la più odiosa), il quotidiano eroismo e la quotidiana ostinazione di Panahi sono tanto più efficaci in quanto sanno comunque farsi spettacolo, cinema, film.
Tutto girato in un taxi per evitare controlli e censure, un taxi di cui il regista si improvvisa gestore, dunque attore-regista. Un taxi che è una perenne invenzione di situazioni anche da commedia, di personaggi costruiti da un bozzettista sapiente. Nella prima parte del film si è sconcertati: sì, va bene la trovata postzavattiniana, ma che cosa si vuol ricavare da questa sorniona insistenza nel voler parlare di cinema dichiarando la finzione? Passata la curiosità e la sorpresa, questa marginale rassegna che sa più di bizzarria che di sociologia dove può andare a parare? Di storie di taxi frequentati da personaggi un po’ strambi se ne ricordano tante, e nella sostanza questa non sembra diversa.
Ironia e autoironia allontanano ogni retorica e quanto di tragico nasconda questa commedia
Ma ecco che lentamente il gioco si svela quando entra in gioco la nipotina vera o presunta del regista-tassista, a cui a scuola fanno fare cinema e che ripete le formule del cinema del regime: l’invito a un “realismo” in tutti i sensi bigotto e autoritario, negazione di ogni confronto vero con la realtà. E qui si perdonano tutte le trovate tardoneorealiste a cui il regista ha fatto ricorso, perché si chiariscono l’impronta fortemente autobiografica, però giocata con un’ironia e autoironia che allontanano ogni retorica e quanto di tragico nasconda questa commedia.
Nel finale – girato anche questo, come tutto il film, dall’interno del taxi – due poliziotti in borghese penetrano violentemente nella macchina momentaneamente abbandonata da Panahi e dalla nipote, alla ricerca di un “girato” da distruggere o di cui servirsi contro il regista. Il passeggero più illuminante del taxi di Panahi è un’amica avvocato dei diritti civili che con la stessa ostinazione del regista continua nonostante tutto il suo lavoro, negli estremi limiti di uno stato di polizia, dicendo serenamente che si deve tirare avanti. E che chi vivrà vedrà.