Le strade di fuoco degli anni ottanta
Walter Hill, sceneggiatore e regista oggi ultrasettantenne, non aveva ancora trent’anni quando contribuì come sceneggiatore a Getaway!, uno scatenato e anarchico film dell’anarchico Sam Peckinpah. Conosceva bene le regole dei generi cinematografici (ha praticato poliziesco, western, commedia) e nei suoi film si è limitato a esasperarle: botte da orbi, inseguimenti catastrofici, eroi da comics minori, ma con un gusto generazionale che veniva dal fumetto più acido e metropolitano, dai nuovi comici alla Eddie Murphy e John Belushi, dalla musica rock e dalla diffusione dei videoclip (di cui, è bene ricordarlo, il primo efficace elaboratore fu negli anni sessanta il francese Jean-Christophe Averty e non gli inglesi e gli americani).
L’epoca d’oro di Hill furono gli anni settanta e i primi ottanta, il film più rilevante fu I guerrieri della notte, il più ambizioso (e irritante) Johnny il bello con Mickey Rourke, che segnò il punto culmine della carriera di quest’attore piuttosto antipatico (come erano e restano antipatici altri due divi usati da Hill, molto più abili nel gestire le loro carriere, Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger).
I guerrieri della notte era tratto da un romanzo di un giovane scrittore, Sol Yurik, tutt’altro che stupido, che disse di essersi ispirato per la trama all’Anabasi di Senofonte. Raccontava di una notte brava newyorkese e di guerra tra bande giovanili: dopo un concerto rock la banda dei nostri eroi doveva attraversare New York tra le insidie e aggressioni delle bande rivali, da una fermata di metropolitana all’altra giù fino al mare, al giorno, al sole. Un’intera generazione ha visto e amato quel film, e lo ha accostato alle opere della controcultura, ai suoi autori e linguaggi tardivi.
Strade di fuoco ritorna in un dvd Universal di ottima qualità e si conferma come un film divertente e veloce, con uno scattante montaggio da videoclip (i lunghi titoli di testa possono essere considerati un videoclip a se stante), vicenda e immagini da fumetto, un sacco di buona musica, inseguimenti e scontri a volontà tra macchine e moto, attori che sono perfetti manichini (però il protagonista è molto fiacco, in un ruolo che sembrava fatto apposta per l’impassibile meteora Michael Beck dei Guerrieri).
Strade di fuoco
La storia è primaria: in una periferia degradata (ma quale periferia al cinema non è degradata?) una giovane diva del rock (Diane Lane) mentre si esibisce è rapita da una feroce banda di bikers, i Bombers, guidata dal cattivissimo Willem Dafoe (colui che di recente ha prestato i suoi tratti, non più diabolici, al Pasolini di Abel Ferrara). Una giovane barista chiama allora suo fratello, che è l’ex della cantante, e quello torna e, impassibile, sgomina tutti con l’aiuto di due bizzarre ragazze. Tutto qui, ma in scenari acidi e forti contrasti di colori, con musica a tutto volume (per lo più buona o decente) e un’azione a tamburo battente, senza un attimo di tregua, a ritmo di rock. Non a caso il film ha come sottotitolo “Una favola rock”, anche se “Un fumetto rock” sarebbe stato più indicato.
Strade di fuoco è del 1984, il cinema per un pubblico di giovani aveva dato e dava ancora film di successo che a volte erano davvero nuovi (la cultura di massa sapeva ancora recepire le indicazioni che le venivano dalle masse, e dagli anni sessanta fin quasi alla fine degli ottanta le masse che andavano al cinema erano giovanili per definizione), e Walter Hill non si era ancora del tutto arreso alle indicazioni dei produttori, cioè delle banche e dei loro uffici studio. Oggi è il solito fallito hollywoodiano, chissà se più o meno alcolizzato come i migliaia che negli Stati Uniti chiamano gli has been, gli “ei fu”, una stagione di gloria e poi l’infinita decadenza. Quanti has been anche in Italia, anno dopo anno, quelli che l’industria della cultura e dello spettacolo divora e sputa a getto continuo, bisognosa di sempre nuove mode e nuovi miti, più o meno miserabili.
Ciò non toglie che Strade di fuoco resti un simpatico fumetto rock che fa piacere rivedere: non ci chiede di pensare, ma a volte è meglio non pensare che pensar male e arrabbiarsi come accade, per esempio, con tanti film presuntuosi e sciocchi, italiani o non.