Un film per amore di Napoli
Napoli è sempre Napoli, una diversità nel bene e nel male che in mille hanno raccontato sapendo coglierne le basi culturali profonde o limitandosi alla superficie, eccessiva di colori e di grida. Si veda, sulla fascinazione o sulla ripulsa esercitata dalla città nei suoi visitatori, Dadapolis, l’antologia di giudizi compilata anni fa per Einaudi da una grande napoletana precocemente scomparsa, Fabrizia Ramondino.
La lettura recente e più attendibile della società napoletana che conosciamo è quella di un antropologo, Stefano De Matteis, con Napoli in scena (Donzelli 2012), e di un film-documentario di Agostino Ferrente e Giovanni Piperno, Le cose belle (2013). La più distante nel tempo è quella di un vecchio film tedesco, Nel regno di Napoli di Werner Schroeter (1979).
Giuseppe Gaudino, autore quasi dieci anni fa di un bellissimo poema cinematografico su Pozzuoli sua patria, Giro di lune tra terra e mare, l’affronta in Per amor vostro attraverso un personaggio femminile, Anna, affidato efficacemente al volto e al corpo di Valeria Golino, un’attrice assai brava anche se monocorde e di incerta dizione, che ne fa una sorta di emblema complesso della città, come negli anni settanta ne fecero Sergio Bruni e Salvatore Palomba con la struggente canzone Carmela.
Per amor vostro
Anna ha trovato lavoro alla tv come addetta ai “gobbi” dei dialoghi delle telenovele, ha un marito aggressivo e manesco che scopriremo usuraio, avrà per amante un attore di telefilm che scopriremo socio del marito, ha due figlie sciacquette e un figlio sordo, adolescenti o poco più. Donna, napoletana, vittima di un mondo maschile e di una città degradata, di una cultura di popolo di cui gli antropologi dicono che la sola cosa che ancora la regge, nella piccoloborghesizzazione universale e nella morte del sottoproletariato, della sua immensa tradizione teatrale e canora e della “cultura del vicolo”, è la famiglia.
Ma la famiglia di Anna è decisamente poco raccomandabile! Anche la stessa Anna, che sfacchina e patisce per tenere insieme quel che si trova addosso, oppressa dalle richieste anche di amici e genitori, non è esente da cedimenti, obbligata al purgatorio di uno sfacelo che appare irrimediabile, senza vie d’uscita. Gaudino ha scelto di raccontare la sua storia in un bianco e nero invaso spesso da colori e da trucchi, aggredito da canzoni che commentano l’azione e ne danno una morale, e stravolto dai sogni di Anna, dal suo immaginario più minaccioso che consolatorio.
Per un lungo tratto quest’insieme è originale e forte. Poi prende il sopravvento una sorta di esibizionismo-narcisismo formale, che all’espressionismo di una quotidianità molto gridata carica l’iperespressionismo del fantastico e dell’incubo. E il racconto gioca troppo con la sceneggiata e sminuisce la tensione invece che acuirla, riportando a convenzione quel che sembrava uscirne leggendo criticamente una tradizione.
Il film finisce per soffocare la sua novità per eccesso di ambizione, inseguendo progressivamente l’originalità invece che una verità. È un difetto comune a tanta produzione napoletana di oggi, che a favore del barocco e del rumore allontana una lettura razionale o perfino fredda e freddissima di Napoli di cui questa città avrebbe sommamente bisogno. Peccato, anche perché il talento e la passione di Gaudino sono davvero grandi.