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L’agghiacciante immediatezza di Suburra

Suburra. (Emanuela Scarpa)

Il confronto non è con Gomorra, anche se il titolo fa quasi rima, né con Anime nere, con cui avrebbe più affinità di soggetto. E neanche con quell’altro film recente e sconvolgente, Non essere cattivo, in cui Ostia era l’unico paesaggio fisico e umano mentre qui è uno dei molti, per l’ambizione degli autori di raccontare tutta Roma e il potere e i meccanismi che regolano i rapporti tra crimine e politica (il parlamento, i quartieri bene con le loro case di lusso, i luoghi pacchiani della “nuova classe” degli arricchiti politicamente trasversale e le stanze del Vaticano, ma anche i palazzoni periferici, le case degli zingari malavitosi eccetera).

Il paragone va fatto con il cinema di genere italiano (e francese, e statunitense). In Italia, ma anche altrove, dove non ci sono soldi abbastanza per fare superspettacoli con supereroi, il cinema di genere si è ridotto ai due filoni dominanti del sentimental-consolatorio (l’idealizzazione di avvenimenti e sentimenti di uomini e donne che si presumono comuni, membri della piccola e media borghesia di massa) e del comicastro paratelevisivo: due generi incapaci da tempo di dirci alcunché di credibile e di illuminante, e perfino di divertente.

Il confronto è da fare con il poliziottesco degli anni settanta, e con il cinema che si diceva di sinistra degli anni ottanta-novanta, in cui si misero in vista proprio due degli sceneggiatori di Suburra, che mai faranno ammenda della loro superficialità di quel tempo, come mai ne farà una sinistra (e la sua cultura, i suoi ideali) diventata proprio allora fragorosamente di destra.

Il poliziottesco sfornò film ideologicamente più che confusi, ma tecnicamente di alto livello, narrazioni costruite con perizia che a volte, come in Fernando Di Leo o in Sollima padre, non avevano molto da invidiare ai film statunitensi e francesi degli stessi anni.

Suburra


È come se Suburra ne raccogliesse la lezione e il modello, ovviamente trasferendoli in un contesto nuovo e diverso. In qualche modo, è successo che la realtà ha copiato quel cinema, e quel che lì sembrava esagerato si è dimostrato invece inferiore al vero. La banda della Magliana, la Roma capitale e la Milano berlusconiana e ciellina, la ’ndrangheta aggiunta alla mafia e alla camorra, la corruzione politica, la spregiudicatezza bancaria, la manipolazione giornalistica della realtà hanno espresso un mondo in cui basta infilare le mani per tirarle su cariche di merda, ma anche di spunti narrativi più che forti, di intrecci e brutture sulle quali i denunciatori per mestiere ricamano con la loro abituale ipocrisia e i giallisti intrecciano storie, plausibili e nere in abbondanza.

Tanti lo hanno fatto, ed era impossibile che così non fosse. Come si è detto, alcuni degli autori più in voga nella cultura “ufficiale” della sinistra dei decisivi anni ottanta-novanta figurano tra gli autori di Suburra, anche se il lavoro di Giancarlo De Cataldo è meritoriamente documentario e documentato. Pensando al loro curriculum viene da sospettare che la mano del regista sia stata decisiva, riuscendo a dar loro una sorta di nuova vitalità e credibilità, usandoli e piegandoli alle sue esigenze. Sono propenso a credere, al contrario di altri, che il merito maggiore, anche politico, dell’efficacia di Suburra dipenda dal suo regista più che dai suoi sceneggiatori.

A un certo punto del film, quando le cose precipitano e tutto sembra cambiare (novembre 2011, una crisi di governo qui enfatizzata e forse storicamente meno importante di quanto il film non dica, anche se decisiva per il vasto sottobosco che fino allora aveva trionfato), uno dei supercriminali che guidano i giochi dice gattopardescamente che sì, tutto cambierà, ma che non sarà difficile accordarsi anche con quelli che verranno dopo. Appunto.

Sollima ha fatto una scelta registica ben precisa, coerente, portata fino in fondo

Quella che oggi è cambiata è la coscienza del dominio e dell’universalità dei rapporti tra crimine e politica, e che l’Italia, più fragile di altri paesi nelle sue radici, ne è stata coinvolta così massicciamente da impedire per ora la nascita di un’opposizione eticamente rigorosa. Alla fine di un film in cui quasi mai si nota l’esistenza della polizia e solo alla fine, proprio alla fine, si parla di magistratura – assenti nel resto del film quanto vi è assente la sinistra – si esce con la convinzione che dietro gli orpelli e i violini e le recite e le grida, alla guida della nostra storia sia sempre in agguato, e in parte in azione, la ferocia di una decadenza inarrestabile e confusa, di cui non riusciamo a vedere lo sbocco. E che certamente il film non permette di sperare.

Stefano Sollima ha fatto una scelta registica ben precisa, coerente, portata fino in fondo. Ha i limiti di una certa compiacenza per gli effetti forti, ma questo fa parte della scelta dei colori, dell’accentuazione dimostrativa e fin didascalica che è la misura del film. Suburra è un film di genere, ma che è così insolito in questo campo, almeno in Italia, da superarne i limiti. Ha un linguaggio e una tensione, è corale ampio e complesso, è diretto con maestria e fotografato e montato perfettamente, recitato da attori perfettamente in parte; è un film la cui agghiacciante immediatezza è una lezione di regia ma anche di buona sociologia (merito primo di De Cataldo) e di buon giornalismo. Nel cinema “ufficiale” italiano questo accade molto di rado, anzi quasi mai.

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