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Nel futuro di The lobster l’amore è il nemico principale

The lobster. (Dr)

Diciamo subito, per chi non sa alla perfezione l’inglese, che lobster vuol dire aragosta. Per una volta si capisce perché il distributore italiano abbia lasciato il titolo originale: chi sarebbe andato a vedere un film intitolato L’aragosta, anche se a sponsorizzarlo fosse stata Expo?

L’autore è uno scaltro quarantenne greco, Yorgos Lanthimos, la produzione è britannica e lo sfondo è quello dei bei paesaggi irlandesi. Lanthimos è il rappresentante esemplare di una leva di registi internazionali che si fanno strada nel loro paese, ma si affermano all’estero nel quadro delle multinazionali della comunicazione. Sono autori che rubano dove gli fa comodo e strizzano l’occhio a molti maestri di ieri, che mescolano temi e suggestioni con la disinvoltura di un giovane barman, che cercano un’originalità che possa intrigare, attirare, piacere, che danno più mani di vernice a vecchie storie, e che di conseguenza trovano finanziamenti e vincono premi.

Alle spalle di tutto questo c’è anche da molti anni, ma non in Italia, la convinzione che il mondo non possa più girare per il meglio e che si possano e debbano narrare gli incubi latenti di un’epoca dal futuro molto oscuro, come la nostra. Però che vada fatto stuzzicando, divertendo.

The lobster


Quel che Lathimos racconta in questo film l’abbiamo letto cento o mille volte nella letteratura di fantascienza classica e distopica, ma al cinema l’abbiamo visto di rado, ed è su questo che ha puntato il regista, mescolando spunti nel continuo sforzo di sorprenderci e d’inquietarci. Ce l’ha fatta solo in parte, ma a giudicare dal successo del film un po’ ci è riuscito, e la riconoscibilità degli ambienti e l’irriconoscibilità delle situazioni presenti nel suo film producono indubbiamente un certo disagio.

Siamo in un futuro rigidamente controllato da un potere in cui i leader non si mostrano direttamente e dove chi non è accoppiato è aiutato dallo stato, in grandi alberghi-colonie che di fatto sono dei lager, a trovare un nuovo partner, e se non lo fa è costretto a mutarsi in un animale a sua scelta (il protagonista sceglie l’aragosta, ma fugge prima di diventarlo).

La prima parte del film è la descrizione di questo ambiente, la seconda è quella del mondo dei solitari, che vivono clandestinamente nei boschi e hanno regole non meno feroci. Se nella prima soluzione l’amore è un accoppiamento giudizioso frutto di un ricatto, nel secondo è semplicemente bandito. In tutti i due casi, è l’amore il nemico principale (accadeva già in 1984, ma non era solo l’amore a essere inviso al potere). Lanthimos si guarda dall’approfondire il discorso, dal cercare chiavi e additare nemici. Si limita al racconto, per gran parte efficace, di situazioni future in realtà forzate e improbabili: il potere non si va basando solo sul controllo degli affetti, ma soprattutto su quello delle intelligenze e delle volontà, della ricerca di alternative.

La mescolanza tra il qualcosa di realistico e il molto di irrealistico che mostra Lanthimos crea tensione e curiosità per buona parte del film, ma il sospetto della gratuità incrina l’attenzione: se il regista non crede davvero in quel che dice, può incuriosire ma non può pretendere di convincere.

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