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Il figlio di Saul prova a rappresentare l’irrappresentabile

Una scena del film.

Il figlio di Saul è l’opera prima di un regista ungherese, László Nemes, che ha 39 anni, che sa molto bene quello che vuol dire e come dirlo. Si vede il film angosciati, con le stesse sensazioni di dolore e di rabbia con cui si videro i primi documentari sulla shoah (che allora si chiamava massacro e poco dopo genocidio, quindi olocausto e infine shoah), e si lesse Se questo è un uomo, e si ascoltarono i racconti dei sopravvissuti, e si seguì sulla stampa il processo Eichmann.

Comunicare l’orrore

Nonostante l’esplosione di vitalità che seguì la guerra mondiale, ci si interrogava o si restava – i più piccoli – inquietati o terrificati dalla domanda di sempre ma per loro nuova, e a cui, per i più adulti, Auschwitz e Hiroshima davano un tocco nuovo che era quello della tecnica e dell’organizzazione industriale, della macchina oltre che della scienza. La domanda di sempre era piuttosto una constatazione: di questo dunque è capace l’uomo.

Il figlio di Saul


Partire da qui è fondamentale, perché ci sono film che il discorso del critico arriva a toccare solo in seconda istanza, film che ci sembra vadano oltre il cinema e un discorso sull’arte – anche se poi, ragionandoci, ci si accorge che non è proprio così – e per i quali qualsiasi riflessione di tipo formale ed estetico sembra, almeno in un primo tempo, quasi offensiva.

È difficile, se non impossibile, riuscire a comunicare l’orrore, anche se in tanti ci hanno provato e ci sono riusciti, da Eschilo a Dante, da Dostoevskij a Celan.

In breve: con una macchina da presa (e pellicola) che insegue il primo piano del protagonista e lascia sullo sfondo, confusa, la visione dell’orrore; con un formato ormai insolito, da cinema del tempo; come fosse un documentario ma con una costruzione drammaturgica studiatissima e una sceneggiatura calcolatissima; Nemes racconta di un sonderkommando – i prigionieri addetti ad assistere i boia nel massacro degli altri in attesa del proprio – che crede di riconoscere in una vittima bambina il proprio figlio, ma più tardi sapremo che forse non ha mai avuto un figlio!, e che vuol dargli sepoltura religiosa, cercando affannosamente in mezzo ai morti, agli assassini e ai becchini alla cui schiera appartiene, il rabbino che possa farlo.

Nemes sa quello che vuole e sa come ottenerlo: una nuova immagine della shoah

Lo spettatore dispone del suo volto, di uno sfondo che raramente ci viene accostato, e segue la sua ossessione narrando allo stesso tempo la vita del lager (Auschwitz-Birkenau, mai nominato) e la costante presenza della violenza e della morte, e nelle pieghe del racconto la preparazione della rivolta dei sonderkommando, destinata alla sconfitta.

Qui tornano alla mente dello spettatore le immagini agghiaccianti dei Dannati di Varsavia di Andrzej Wajda, l’unico regista con l’altro polacco Andrzej Munk, La passeggera, e con il francese Jean Cayrol sopravvissuto autore di Notte e nebbia con Alain Resnais, e in letteratura con il nostro Primo Levi e pochi altri, ad avere forse affrontato con la coscienza più responsabile il dovere di raccontare e di interrogare/interrogarci. Non di farne, come è accaduto fin troppo spesso più tardi, semplicemente merce.

L’orrore estremo non è, se si è puri, irrappresentabile, ma essere puri è difficile. E se Il figlio di Saul è un film sconvolgente, che non va assolutamente confrontato con le operazioni commerciali degli Spielberg e dei Benigni, pure il dubbio rimane che sia proprio il grande controllo esercitato su questa materia incandescente da un regista nato più di trent’anni dopo la shoah, a limitare non la sua forza, ma la sua purezza.

Scappatoia ideologica

Nemes sa quello che vuole e sa come ottenerlo: una nuova immagine della shoah, un modo di raccontarla che nessuno prima di lui ha tentato, e che possa sconvolgere lo spettatore ma anche sbalordirlo, fargli ammirare il suo lavoro, farlo premiare. A questo dubbio risponderà solo la sua opera futura, ma la domanda di Lanzmann (invecchiato piuttosto male dopo l’impatto del suo film sulla shoah) e prima di lui di Adorno rimane angustiante, conturbante: si può fare opera d’arte sull’indicibile, sull’immostrabile? È lecito tentarlo? È accettabile che parli di Auschwitz chi non c’era o chi non ha vissuto un orrore simile?

Quanto di calcolo c’è nell’ispirazione di Nemes? E quanto di autentico e di poetico?

Resta a dire del filo narrativo del film, dell’idea – che va oltre il tempo e il luogo che esso affronta – di un dovere verso l’infanzia vittima del mondo adulto ma a cui il mondo adulto continua ad affidare, più o meno ipocritamente, l’ambigua speranza o meglio il compito di un mondo migliore. Bisogna anche chiedersi, credo: che cos’hanno capito e fatto e fanno i bambini che diventano adulti, che non muoiono bambini? Seppellire i morti con la giusta sacralità, specie se bambini, è doveroso e giusto, mentre anche nel film affidare loro la speranza nel futuro può fungere da scappatoia ideologica.

Che tutte queste questioni siano sollevate dal film di un esordiente è comunque straordinario, e si spera che l’occasione sia accolta dagli spettatori più esigenti, da quelli moralmente più esigenti.

Per il resto: quanto di calcolo c’è nell’ispirazione di Nemes? E quanto di autentico e di poetico, nel senso più alto, nella scommessa del Padre del bambino dal nome ignoto? Quanto di necessario e quanto di prestabilito? Quanto di poetico e quanto di oculato? Lo sapremo solo dai prossimi film di Nemes, regista di grande talento e, ci auguriamo, di grande onestà.

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