Fiore è una storia d’amore tra due adolescenti fragili
È un bel film, Fiore di Claudio Giovannesi. Racconta di Daphne (la molto brava Daphne Bonori), un’adolescente irrequieta cresciuta “ai margini” della società benestante e “regolare”. Il padre, interpretato da Valerio Mastandrea con la consueta sincerità e adesione al personaggio, è un ex coatto sotto controllo, che sta con una rumena con figlio e non può occuparsi più di tanto di lei. Racconta del suo lungo periodo di “rieducazione” nella sua città, Roma, della sua amicizia e poi amore con Josh (Josciua Algeri), “rieducato” nell’ala maschile dell’istituto/prigione in cui si trova Daphne, e infine della sua fuga e, ritrovato Josh a Milano, della continuazione della fuga però con Josh.
Giovannesi non cerca effetti di regia, ma persegue una narrazione piana e realistica, quasi documentaristica esaltata però dal colore (calda e bella la fotografia di Ciprì) e rotta da brevi momenti musicali e da brevi sogni/fantasticherie di Daphne, ispirati dal desiderio. Senza forzature drammatiche, senza prevaricazioni ideologiche, senza ricatti sentimentali, senza buonismi o cattivismi di maniera, televisivi.
Il regista ama i suoi personaggi, la loro fragilità e la loro forza, i loro sì e i loro no, e ce li fa amare. Li ama, va detto, rispettando anche “gli altri”, benché lasciati sullo sfondo: gli educatori, gli adulti preposti alla loro “rieducazione” ma, per condizionamenti di funzione, meno liberi dei controllati. È un luogo comune del cinema che si occupa di ragazzi e di emarginazione, da Truffaut a Varda ai cento o mille altri che hanno amato adolescenti in rivolta o semplicemente “disadattati” in una società com’è quella dei “normali”.
Sono molto rari al contario i film che hanno raccontato i “rieducatori” coscienti, quelli con un loro progetto, o le pene del “personale” a diretto contatto con gli emarginati, quando non freddi esecutori di ordini altrui o nevrotici persecutori, e vorrei ricordare tra questi Il grande cocomero di Francesca Archibugi, e un indimenticabile primo piano di una generosa e stanca inserviente impersonata con persuasione da Laura Betti.
Sul piano della “rieducazione”, il punto teorico-pratico più avanzato rimane quello di Fernand Deligny, l’educatore che assisté Truffaut per I 400 colpi e gliene suggerì il finale. Il suo libro di storie e riflessioni si intitolava I vagabondi efficaci, e di questo trattava: di come aiutare dei disobbedienti per istinto o per reazione a un mondo crudele in disobbedienti efficaci.
Con precisione di tocco, con delicatezza, e con forza, e con sincerità, Giovannesi racconta Daphne e Josh con una partecipazione affettiva che è senz’altro fraterna, che non è paterna e tanto meno paternalistica. Sta per davvero dalla loro parte, anche se non arriva a chiedersi cosa ne sarà di loro dopo la loro fuga, cosa gli riserverà il mondo e cosa potranno diventare.