Un padre, una figlia poteva essere un capolavoro
Prima della caduta di Ceaușescu, il cinema romeno ha avuto un solo grande regista, teatrale e cinematografico, Lucian Pintilie, di cui Cristian Mungiu ha preso il posto come coraggioso capofila di una generazione più libera e infine più fortunata di quella, conquistando una Palma d’oro a Cannes con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni e un premio per la regia con Un padre, una figlia, in originale Bacalaureat, e cioè, in Italia, licenza di scuola media superiore.
Siamo in una cittadina della provincia montana, in casa di un brav’uomo, medico, che ha visto fallire i sogni della sua generazione postcomunista, che ha un’amante con figlio non suo, una madre anziana e sola, una moglie, e una figlia per la quale egli aspira a una vita migliore, e pensa di mandarla a studiare in Inghilterra, se supera l’esame e sarà presa. Oscuri sensi di colpa lo tormentano (e minacce reali, forse vendette per errori passati? Un sasso contro una finestra, il parabrezza dell’auto distrutto, la figlia aggredita e quasi violentata da uno sconosciuto).
Intorno a questo brav’uomo (lo è davvero, senza ironia) c’è la rete dei legami sociali di un paese che somiglia ora a tanti altri, dove lo stato latita e la società civile si arrangia, nel consueto scambio di favori tra chi può, quello scambio che permette di superare lentezze e risolvere problemi, anche se solo per chi favori da offrire ne ha: io do una cosa a te, tu dai una cosa a me, si diceva un tempo. E se non lo si dice, si continua a farlo. È possibile altrimenti, nel mondo di oggi? Questo è certamente, in paesi come la Romania e in parte nel nostro, un modo d’agire quasi obbligato: l’impossibilità di essere normali, vale a dire onesti.
Mungiu imbastisce la sua regia comunicandoci una tensione latente, l’attesa di qualcosa di brutto che incombe, come in un film hitchcockiano, su un’esile traccia anche poliziesca, stando addosso ai personaggi, anzi al personaggio, e confrontandolo agli altri in scene a due, di profilo, allargando su ambienti normalmente comuni e cioè grigi. Sempre sull’orlo della crisi, e lentamente precipitandovi. La sua ostinazione nel voler permettere alla figlia un futuro migliore del suo lo spinge a scambi di piaceri, sui quali vigila però la magistratura. Sarà proprio la figlia a salvarlo, rifiutandosi per intima onestà a questo gioco strabico e pericoloso.
Mungiu, con evidente forzatura, dopo due ore di film che ci dicono altro, rinvia ancora una volta al futuro la speranza di un mondo migliore: padri che non ce l’hanno fatta caricano di responsabilità i loro figli, passano la palla. Poteva essere un capolavoro, Bacalaureat, se Mungiu avesse osato tagliar via la parte finale accettando la lezione di una storia che non sembra avere sbocchi positivi, e l’avesse alleggerita di troppi corsi e ricorsi.
Il romeno è un regista serio, appassionato, bravo. È un grande regista, ma sembra soffrire anche lui i limiti di un’epoca balorda, del mondo e non solo della Romania: non può rifiutarsi alla speranza (ma perché? non è un politico o un attivista, che dovrebbe esserlo per definizione; è un artista) e non sa più, come migliaia di scrittori e registi, andare al sodo, salvare di un film ciò che veramente serve. Accumula e mescola l’essenziale e il superfluo, il già detto, il di più. E vuol mandarci a casa contenti. In ogni caso, meglio uno che eccede nella narrazione e si ostina nel messaggio che i cinici bravacci che accontentano un pubblico pigro e ipocrita e una critica che ingurgita di tutto.