Andrzej Wajda, il regista che ha smascherato la storia ufficiale
È quasi certo che nessun italiano, anche del mestiere, abbia visto tutti i film diretti da Andrzej Wajda nella sua lunga carriera, dal 1955 all’anno della sua morte, che è l’anno ancora in corso. Sono quasi cinquanta, e molti hanno potuto vederli solo i frequentatori dei festival, che non sempre sono i critici più acuti.
Nato nel 1926, suo padre era un ufficiale dell’esercito, di quelli ammazzati dall’esercito staliniano a Katyń attribuendo il massacro ai nazisti. Wajda conobbe presto la verità, ma nella Polonia “socialista” del dopoguerra non poteva certo dichiararla, e si adattò a quell’esistenza che milioni e milioni di persone hanno dovuto sperimentare nello scorso secolo, e tanti altri sono obbligati a sperimentare tuttora in molte parti del mondo: l’accettazione di un sistema di potere odioso, per poter sopravvivere, sé e i propri cari.
Una sorta di doppio gioco, di “doppia cittadinanza”, di doppia vita quantomeno con la mente. Era poco più che adolescente alla fine della guerra, quando seguì una scuola di cinema a Łódź e fu il miglior allievo di un regista probo e dimenticato, Aleksander Ford. Poté esordire dirigendo il suo primo film nel 1955, ispirandosi alle sue esperienze e a quelle dei suoi amici in tempo di guerra e di resistenza, e il film si chiamò Generazione, di un realismo sincero e prevedibile. Un film tuttora commovente, soprattutto per chi ha memoria di quegli anni.
Insofferenza per il racconto tradizionale
Fu seguito da due capolavori di vasta risonanza, distribuiti anche in Italia: I dannati di Varsavia e Cenere e diamanti, due tragici affreschi della disperata resistenza al nazismo il primo, e della confusione dell’immediato dopoguerra il secondo, tra destra e sinistra, tra nostalgici e innovatori gli uni contro gli altri armati.
Regia barocca, si disse, e visionaria, estrema, forse unica nel cinema del tempo che era tutto portato alla ricerca di un nuovo realismo. Si indovinava nei protagonisti di quei film la tensione che animava il regista, l’insofferenza per il racconto tradizionale o tranquillizzante, dopo l’inferno della guerra, un inferno che in Polonia fu perfino più nero che altrove, in un paese schiacciato dai tedeschi ma anche dai russi.
Non serve citare tutti i film che seguirono, quali più euforici, nel breve periodo della speranza (la destalinizzazione, l’apertura all’Europa, una nuova e più libera generazione), quali “classici” o intimi, ma almeno due, meno visti di altri, vanno ricordati: Samson, sulla shoah, e Paesaggio dopo la battaglia, da uno straordinario libro di Tadeusz Borowski sull’uscita dal lager, sulla difficoltà di uscirne anche mentalmente.
Wajda vide come un suo dovere d’artista quello di parlare dell’occupazione sovietica
Sia che illustrasse i grandi romanzi della tradizione polacca – La terra della grande promessa da Władysław Reymont, La linea d’ombra da Joseph Conrad, Danton da Stanisława Przybyszewska (dove la simpatia del regista va appunto a Danton e non a Robespierre), Pan Tadeusz dal romanzo-poema di Mickiewicz fedelmente recitato in versi e debitamente oleografico, ma anche I demoni di Dostoevskij, già affrontato con un adattamento teatrale, poiché Wajda fu anche egregio regista di teatro e trasferì in film il capolavoro teatrale di Tadeusz Kantor La classe morta – o si riportasse a romanzi più recenti di scrittori suoi amici, sia che inventasse un “cinema storico” per raccontare la storia recente e non più quella della guerra, appena gli fu possibile Wajda vide come un suo dovere d’artista quello di parlare dell’occupazione sovietica, del buio periodo stalinista e dei modi di reagirvi del paese e della sua parte più sana e coraggiosa, quella operaia, che conosceva assai bene.
Nascono i grandi affreschi di L’uomo di marmo e L’uomo di ferro, tra i pochi film dedicati alla vera storia della classe operaia, così mistificata e avvilita dalla tradizione marxista e bolscevica anche nei partiti comunisti occidentali e perfino dalla nuova sinistra, e più tardi il film su Walesa.
E nasce Katyn che, con la solidità, la persuasione e la misura di un grande romanzo storico, dimostra fino in fondo la maestria del regista nel ricostruire un’epoca attraverso vicende e figure che spiccano a tratti su un coro e uno sfondo abitato da masse in movimento, da uomini e donne che sono anche ceti sociali e collocazioni politiche. Il respiro storico va di pari passo con un respiro documentario di cui Wajda è sembrato tra i pochi a conoscere il segreto: far sembrare presente la storia, come se tornasse in vita sotto i nostri occhi.
Questa “impressione di realtà” attraversa tutto il cinema “in costume” di Wajda, e ha forse il suo culmine in Doctor Korczak, dedicato alla figura del grande pedagogista ebreo difensore dei diritti del bambino, del diritto del bambino al rispetto. Korczak tenne in vita la sua scuola di orfani nel ghetto di Varsavia e, pur avendo una possibilità di fuga, preferì morire con loro nelle camere a gas di Auschwitz.
Laboratorio di forme
L’ultimo film di Wajda, visto come un’alta eccezione nella fiera del cinema di Roma, è degno dei precedenti ed è ancora un grande film “storico”. Più volte Wajda ha raccontato figure di artisti (per esempio in Direttore d’orchestra, dove trattava di un grande musicista polacco esule in Inghilterra che decide di tornare in patria, interpretato da John Gielgud) ma qui, in Afterimage (Powidoki, che qualcuno ha tradotto Immagini residue), si tratta di un personaggio reale, non meno reale di Walesa o dei militari ammazzati a Katyń.
Wajda racconta gli ultimi anni del pittore Władysław Strzemiński (1893-1952), che perse una gamba e un braccio nella prima guerra mondiale e che fu, a Mosca, vicino a Malevič, suo allievo, e fu amico di Chagall, di Kandinsky. Interpretato da Bogusław Linda, seguiamo Strzemiński, artista illustre dell’avanguardia successiva alla prima guerra mondiale – l’avanguardia che fu la più necessaria e libera di tutte le avanguardie – nei suoi ultimi anni di vita, nelle traversie del suo privato e del suo pubblico, nella sua emarginazione e riduzione in miseria perché non intese piegarsi alle direttive ufficiali del realismo socialista e continuò a difendere il diritto di considerare l’arte un laboratorio di forme, che ha modi diversi di scavare nella realtà, che deve affermare una propria realtà.
Il suo calvario si snoda tra giovani allievi fedeli e burocrati ottusi o spaventati, dirigenti politici e culturali opportunisti o fanatici seguaci delle direttive di Mosca, e un “privato” che lo vede separato da un moglie che pure in passato ha molto amata, con una figlia quasi adolescente, alle prese con la quotidianità pesantissima di una dittatura, anche con la fame (si pensa a quel che è stata l’adesione italiana a quei modelli e, se riusciamo a spiegarcela, non ci sembra lecito perdonarla.) Fino alla morte per tbc.
Due scene meno realistiche del resto ci rimangono nella mente, poste quasi all’inizio e quasi alla fine del film: quella che porta alla prima persecuzione di Strzemiński quando vede la finestra da cui entra la luce che gli serve per dipingere offuscata dal rosso di un’enorme stoffa su cui è impresso il volto di Stalin, durante una manifestazione; e quella in cui, cercando lavoro, il pittore finisce tra i manichini di una vetrina, imbrogliandosi e crollando. È una scena che ricorda nella sua dimensione quasi espressionistica le immagini lontane dei Dannati di Varsavia, di Cenere e diamanti.
Ma il contesto è diverso, e diversa è la scelta estetica del regista, anche se il suo proposito rimane quello di denunciare lo scandalo della Storia dandoci lezioni di storia, che sono lucide nei dati e nei giudizi, profonde nella lettura delle forze in campo, libere nel rifiuto delle visioni ufficiali, delle interpretazioni interessate e di parte.
Con una padronanza e una sicurezza che sono il frutto di una conoscenza e di una partecipazione diretta ma anche di un’esigenza morale fortissima, Wajda, tra i grandissimi nomi della cultura europea del novecento e fino a oggi, mirava a spiegare la storia e non solo a mostrarne gli effetti, ed è di questo che dobbiamo essergli soprattutto grati, noi che siamo così pigri e consenzienti nei confronti della storia che ci viene oggi imposta.