La morte corre sul fiume è un gioiello assoluto del cinema
La Cineteca di Bologna ha molti meriti. Nel suo caso il privato la vince sul pubblico (cioè sulla Cineteca nazionale romana) per capacità di presenza, ricchezza di iniziative e soprattutto per un amore e un interesse per il buon cinema che non viene soltanto da motivazioni burocratiche e corporative. Tra tante altre cose egregie, ce n’è una che riguarda direttamente i cinefili sparsi sul territorio nazionale, quella del recupero e della distribuzione nelle sale normali di grandi film del passato, là dove ci sono ancora degli esercenti non schiavi del supermercato commerciale, sempre più bieco e ovviamente al passo con la biecaggine della produzione dominante, americana e italiana in particolare.
L’ultimo film distribuito dai bolognesi è uno di quelli che ho visto più volte, ma non sono certamente il solo a considerarlo un assoluto gioiello nella storia dell’arte cinematografica. È La morte corre sul fiume (The night of the hunter, 1955), un capolavoro fuori tempo, di valore assoluto. Concorse al risultato un regista insolito, Charles Laughton, grandissimo attore di cui fu questa la sola regia cinematografica (qualcosa in teatro deve averlo diretto oltre a essere stato il primo grande interprete, a Broadway, del Galileo di Brecht per la regia di un giovane Joseph Losey).
Concorse un soggetto insolito, il romanzo omonimo di Davis Grubb, meridionale del West Virginia, che uscì in Italia nella Medusa mondadoriana e fu più volte riproposto con una bella introduzione del poeta Raboni (oggi è accessibile nelle edizioni Adelphi). Grubb non scrisse altre cose dello stesso valore, ma questo romanzo è diventato presto un classico della letteratura nordamericana, in particolare della letteratura del sud degli Stati Uniti, al pari di Il buio oltre la siepe di Harper Lee, con cui ha molti punti di contatto.
Nella fotografia si fondono la tradizione del gotico angloamericano e dell’espressionismo europeo
Concorse la sceneggiatura di un grande scrittore, James Agee, che conosceva bene il sud per le sue inchieste con il fotografo Walker Evans degli anni della grande crisi (nei quali la storia è ambientata) e che ha scritto due capolavori, Una morte in famiglia e La veglia all’alba, di perfetta comprensione della psicologia infantile e, stilisticamente, a cavallo tra il modernismo del flusso di coscienza e i maestri della tradizione della grande provincia statunitense. Agee è stato anche un grande e coraggioso critico cinematografico, amico di Chaplin, e ha dato a John Huston un’altra grande sceneggiatura, quella di La regina d’Africa.
Concorse un direttore della fotografia d’eccezione, Stanley Cortez, entusiasta di ricorrere, su suggerimento di Laughton e Agee, ai grandi modelli del cinema muto, alla fotografia dei film di Griffith. La tradizione del gotico angloamericano e dell’espressionismo europeo si fondono con una misura che non si trova in altri film che l’hanno cercata.
Concorsero due attori formidabili: Robert Mitchum genio maligno, entusiasta del suo ruolo di diabolico pastore di una setta religiosa di cui è l’unico profeta, che nelle sue prediche evidenzia la lotta tra il bene e il male intrecciando energicamente le due mani, sulle cui dita sono tatuate le parole “love” e “hate”, amore e odio, e Lillian Gish, l’ingenua ormai vecchia dei film di Griffith, da Agonia sui ghiacci a Le due orfanelle.
Archetipi universali
Shelley Winters, l’altra protagonista, veniva invece dall’Actor’s Studio, ma seppe rinunciare alla psicologia del profondo per l’evidenza di una repressione sessuale che il malsano e criminale Mitchum (che vede nel sesso il male) le fa sublimare in isteria. Il fondo fiabesco del racconto fa di Mitchum un Orco e della Gish una Mamma Oca, rinviando ad archetipi universali, che strutturano la narrazione e le danno una interna solidità, necessità.
E ci sono infine i bambini, un maschio e una femmina, più piccola, oggetto dell’attenzione malvagia dell’Orco e di quella protettrice e benevola di Mamma Oca. La storia che ci viene raccontata è infatti essenziale, radicata in una storia, un ambiente e una cultura precisi, e che però vola verso la metafora, l’exemplum, l’allegoria, l’apologo, il mito: la favola.
Il traliccio narrativo è il seguente: negli anni della crisi, nel sud, un povero bianco con moglie e due figli è arrestato per rapina, ma prima di essere acciuffato nasconde il bottino nella bambola della figlioletta Pearl, sotto gli occhi del fratello più grande. In carcere si ritrova nella cella del predicatore, che ascolta i suoi deliri notturni e capisce che i bambini sanno dove il denaro è stato nascosto. Il contadino è giustiziato, il predicatore trova la sua famiglia, ne circuisce la moglie e la sposa (ma non consuma le nozze, ché farebbe peccato). Gli abitanti della zona impazziscono per le sue prediche a base di “love” and “hate”.
I bambini, che sfuggono al suo malefico fascino e ne sono terrorizzati scappano di casa su un barca e scendono il grande fiume, raccolti infine da una donna che, per il rimorso di un figlio fuggito perché non ha saputo amarlo, raccoglie bambini orfani e sperduti, li nutre, li protegge, li istruisce. Ricompare il predicatore che, ossessionato dalla sua avidità, si aggira intorno alla casa. La donna, intuendo la sua malvagità, non si lascia incantare e quando si fa minaccioso difende i bambini sparandogli, ferendolo. Vengono fuori le sue magagne e al processo la stessa folla che l’aveva osannato gli si rivolta contro, ancora istericamente.
Sono tante le scene indimenticabili di questo grande film, ma le più insinuanti e durature sono forse quelle dei bambini addormentati nella barca che scivola lungo il fiume, la bambina abbracciata alla sua bambola, mentre sulla riva, per fortuna ignorandoli, avanza anche il predicatore a cavallo, cantando un inno, stagliandosi contro il bianco di una enorme luna che riempie lo schermo.
Se si ama il cinema, non si può non aver visto The night of the hunter, e, molto meglio che in dvd, al cinema nella visione restaurata dalla Cineteca di Bologna in programmazione qua e là in queste settimane, che ne esalta la bellezza e agisce possentemente sul nostro conscio e sul nostro inconscio.