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La rivoluzione di Godard era anche una rivoluzione sociale

Jean-Luc Godard sul set di Bande à part, 10 marzo 1964. (Gamma-Rapho/Getty Images)

Il rilievo della figura e dell’opera di Jean-Luc Godard è grandissimo nella storia del cinema, ma anche in quella dei movimenti che tra la metà degli anni cinquanta e gli anni settanta hanno rotto gli equilibri precari delle società nate dalla guerra e dalla ricostruzione. La nouvelle vague a cui apparteneva ha inciso sul cinema, sul teatro, sulla musica e sulle altre arti. Meno sulla letteratura dove, al posto di una rivolta che ambiva a diventare anche sociale, alla fine ha prevalso la ricerca formale, in Francia con la scuola dello sguardo e in Italia con il Gruppo 63. Non nel Regno Unito, non in Germania, non negli Stati Uniti, non in America Latina e nel lontano Giappone.

Si può sostenere senza timore di sbagliare che la nouvelle vague in campo artistico abbia preparato, formato e sostenuto le rivoluzioni sociali, soprattutto quelle dei giovani, degli studenti. In modo non sempre cosciente, i giovani militanti degli anni sessanta e settanta hanno fatto propri modelli e idee del movimento, ispirandosi alle analisi della scuola di Francoforte (da Adorno a Marcuse a Habermas) e della sociologia statunitense (da Wright Mills a Goodman a Dwight Macdonald). In particolare nel cinema e a teatro (che aveva Brecht alle spalle, ma soprattutto Grotowski e il Living theatre di Julian Beck), e con l’accompagnamento musicale, diciamo così, di Bob Dylan e Bruce Springsteen.


All’epoca si diceva che la nouvelle vague francese o statunitense influenzasse poco il cinema italiano; che la libertà di Rossellini, padre del neorealismo, fosse stata di esempio proprio per i francesi, tanto che Godard e Truffaut lo chiamavano il loro Socrate; e che tanti lavori di Fellini o di Antonioni fossero una sorta di pre-nouvelle vague , per quanto anche Ferreri, Bertolucci e lo stesso Pasolini ammettessero il loro debito verso la nuova scuola francese. Scuola che nel frattempo si era già divisa tra un ritorno all’ordine (sentimento e mélo, e narrazione para-hollywoodiana) di Truffaut e la sperimentazione più estrema di Alain Resnais.

Bisognerebbe approfondire il confronto Godard e Pasolini, due figure centrali per la cultura del secondo novecento (che arriva dopo la seconda guerra mondiale, dopo Auschwitz e Hiroshima), l’italiano non solo al cinema. Entrambi, con le loro provocazioni e il loro soggettivismo, sono stati più rilevanti e più influenti dello stesso Brecht, invece rigidamente marxista. E al contrario dei vari Grotowski, Wajda, Kantor, Tarkovskij, Polański, Chytilová, Jancsó, Kusturica, Makavejev e, per altri aspetti, perfino di Rocha e Ōshima, entrambi hanno rivendicato una libertà dello sguardo, una soggettività della narrazione che potesse scavare nelle contraddizioni di una società dominata da ideologie e strutture comunque repressive, e che contribuisse a smantellarne le basi. In Europa orientale e in altri orienti come, con il “neocapitalismo”, in occidente. In questo senso la nouvelle vague ha aperto la strada ai movimenti del sessantotto e successivi quasi ovunque nel mondo.

Ma Godard, con la sua radicalità provocatoria, con la sua instancabile e sempre creativa aggressione alle forme tradizionali della narrazione cinematografica, con il suo partire da e tornare al sociale allargando lo sguardo a una critica globale del sistema capitalistico, delle sue novità e dei suoi “aggiornamenti”, è stato molto abile anche a diventare un divo dei mezzi d’informazione, almeno in Francia. E questo nonostante fosse un loro critico intelligente e feroce, legando la critica delle forme a quella delle sostanze. Non era l’unico a farlo in quegli anni (si pensi, in Francia, a Guy Debord e ai situazionisti), ma era il solo a essere anche, appunto, un divo.

Pur con la sua (molto astratta ma spesso anche concreta) ricerca delle “immagini di sinistra”, con il suo strettissimo legame con il maggio francese e, poi, con le sue anime più radicali sia sul piano intellettuale (Tel Quel) sia su quello politico (i maoisti), Godard ha scavato nelle contraddizioni aperte dalle nuove ideologie dello sviluppo. L’ha fatto spesso in maniera confusa, ma con uno sguardo da sociologo più acuto di quelli dei sociologi dell’epoca, esclusi i tedeschi.

E ha mostrato le conseguenze di queste contraddizioni in film straordinari. Per esempio nel capolavoro Questa è la mia vita, ma anche in altri che andrebbero mostrati e commentati nelle scuole per capire in che mondo siamo entrati, in che mondo ci hanno fatto entrare, in che mondo abbiamo accettato di entrare. Ne cito alcuni, ma potrei citarli quasi tutti: Week end, Due o tre cose che so di lei, Il maschio e la femmina, Tutto va bene. Ripeto: in tanti abbiamo avuto la fortuna di essere stati contemporanei di vari “fratelli maggiori” radicali e provocatori, con cui litigare e discutere e dai quali imparare. Nel cinema ci sono stati Pasolini per l’Italia e Godard per la Francia, diversissimi tra loro ma molto più vicini, nel loro progetto, di quanto non si sia voluto vedere.

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