Gentile bibliopatologo,
quando leggo un libro e alla fine scopro che l’autore si è tolto la vita, tutto d’un tratto il libro acquista una sorta di alone magico e di significati nascosti che prima non aveva. Quanto incide la triste fine degli scrittori sul successo della loro opera?
–Angelo
Caro Angelo,
Umberto Eco diceva che l’autore dovrebbe morire dopo aver scritto, per non disturbare il cammino del testo, ma la verità è che nulla disturba il cammino del testo più della morte dell’autore. Se poi si tratta di una morte violenta – suicidio, omicidio, attentato di un mitomane, esecuzione politica, incidente spettacolare, attacco terroristico – il destino dell’opera e il destino dello scrittore si fanno ancor più indistricabili. Altro che non disturbare l’interprete-manovratore! La locomotiva del testo si ritrova la carcassa dell’autore in mezzo ai binari, la sua corsa è intralciata e bisogna tirare bruscamente il freno. I lettori fanno allora capannello in quel tratto ferroviario, curiosi e pettegoli, e accostando l’orecchio li sentirai bisbigliare in continuazione la parola “testamento”.
È un’attribuzione ingiusta e in fin dei conti una bella prepotenza postuma, ma non c’è scampo: l’ultima opera è spacciata come il “testamento spirituale” dell’autore. Guai a morire dopo l’opera sbagliata! Chi vorrebbe beccarsi un infarto fulminante quando ha addosso una canottiera sporca di sugo e in mano un supplì mezzo mangiucchiato? Per evitare inconvenienti del genere, la via più sicura è prendere alla lettera il paradosso di Eco e ammazzarsi dopo aver scritto il libro che s’intende consegnare alla posterità. È come mettere in moto il treno e poi correre a legarsi al binario in attesa che ci passi sopra. Ricordi le ultime parole di Nerone, riferite da Svetonio? Qualis artifex pereo! Quale grande artista muore con me!
La cosa può riuscire bene – pensa alle due vicende, spesso affiancate, di Carlo Michelstaedter e di Otto Weininger – ma può riuscire anche meno bene, e si dà almeno il caso di uno scrittore (sarebbe crudele farne il nome: parce sepulto) che si è ucciso dopo aver consegnato all’editore l’equivalente letterario, se non proprio di una canottiera sporca di sugo, di un supplì. Ti consiglio di farti un giro in qualche galleria di suicidi letterari e filosofici: Il dio selvaggio di Al Alvarez, L’arte di morire di Paul Morand, Suicidi d’autore di Antonio Castronuovo e, se leggi lo spagnolo, l’enciclopedico Melancolía y suicidios literarios di Toni Montesinos. Potrai giudicare da te chi meglio ha saputo coltivare il suicidio come forma d’arte e il suicidio come espediente per dar forma, retrospettivamente, alla propria arte.
Ma mi raccomando, attento a non far evaporare quello che chiami “alone magico”, che è una pozione preziosa; abbi solo cura di liberare la sua essenza volatile da un legame troppo stretto con la biografia dell’autore, con la storia, insomma con i sedimenti del mondo extraletterario, tanto più che l’arte, diceva Adorno, è magia liberata dalla menzogna di essere verità. Il “testamento spirituale” è oltretutto una metafora ampollosa, lasciala ai preti e ai notai. Io l’ho ripudiata da tempo, e se proprio me ne viene il capriccio preferisco leggere le ultime parole di uno scrittore come un dying message, un “messaggio del morente”, stratagemma del giallo classico sperimentato fino a vette di virtuosismo barocco dai romanzi di Ellery Queen: un misterioso messaggio in codice da cui parte un’indagine. Va da sé, un’indagine tutta letteraria. Perché il miglior omaggio che puoi fare a uno scrittore è continuare a trattarlo da scrittore anche dopo morto.
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