La forza di un racconto
Gentile bibliopatologo,
forse sono una lettrice atipica, ma amo i racconti. Anzi, direi che per me sono un’ossessione. Perché i lettori sono interessati quasi esclusivamente ai romanzi e non a pillole di storie? Eppure, raccontare una buona trama in uno spazio ridotto è molto più difficile che avere a disposizione pagine e pagine per un intero romanzo (lo dico da scrittrice, per passione). Mi aiuti lei a dare un po’ di pace al mio animo desideroso di racconti.
– Antonella
Cara Antonella,
caricati sulle spalle uno zaino in cui avrai messo l’essenziale (e solo quello: la salita è lunga e ripida) perché sto per portarti in un tempio shaolin. Ricordi i crudeli insegnamenti di Pai Mei, il maestro di arti marziali dalla barba bianchissima e dalle sopracciglia alate a cui si rivolge la sposa in Kill Bill: volume 2? Ebbene, tra questi insegnamenti ce n’era uno che fa al caso tuo.
All’inizio dell’addestramento, Pai Mei perfora con un pugno una massiccia trave di legno, e chiede a Beatrix se è in grado di fare altrettanto. “Sì, ma non così da vicino”, risponde lei (che è comunque Uma Thurman, non Arnold Schwarzenegger), ma Pai Mei non è soddisfatto. “Allora vuol dire che non puoi farlo”, le dice sprezzante. “Cosa farai se il nemico è a cinque centimetri da te?”.
Vite intermittenti
La letteratura di finzione non è proprio una trave di legno, ma è comunque una barriera che richiede di essere penetrata. Dobbiamo oltrepassare le due dimensioni della pagina stampata per veder comparire, come in un’illusione ottica, una terza dimensione immaginaria, quella del mondo narrato. Ora, per molti lettori questo processo richiede, come per Beatrix Kiddo, una certa distanza, se non addirittura una rincorsa. Hanno bisogno di pagine e pagine – dialoghi, dettagli, evocazioni di ambienti, descrizioni di gesti e di fisionomie – perché il prodigio si compia: solo allora, diranno, sono “entrati” nel libro. A volte non ci entrano mai, e continuano a sferrare invano pugni contro il legno, coprendosi le nocche di ferite, come accade alla sposa del film di Tarantino.
Per altri, al contrario, basta molto meno: un paio di paragrafi accattivanti, e sono già sprofondati nella storia fino al gomito. È perché i loro muscoli immaginativi sono più allenati, e la loro capacità di concentrazione – già che di questo, in fin dei conti, si tratta, nella lettura come nelle arti marziali – è di gran lunga più sviluppata. Questo spiega un fenomeno controintuitivo che ci capita di osservare tutti i giorni: le nostre vite frammentarie e intermittenti sembrerebbero, in teoria, più congeniali alla misura del racconto, che non pretende di sequestrare la nostra attenzione troppo a lungo; eppure, i grandi bestseller superano spessissimo le cinquecento pagine.
Insomma, cara Antonella, tu saresti l’allieva ideale di un Pai Mei delle lettere, ma il tuo caso è piuttosto raro. Non c’è trave di legno che ti resista. Molti di noi devono partire da quarantasei metri e poi correre come pazzi per tentare di sfondare le porte della finzione, con il rischio di spaccarsi la testa come una noce di cocco. È la nostra miserevole condizione. Mi auguro solo che, dall’alto del tempio shaolin, continuerai a guardare gli sforzi di noi principianti senza il disprezzo di Pai Mei.
Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.