Un mercato a Kashgar, nello Xinjiang, in Cina. (Kevin Frayer, Getty Images)

Non è ancora una vera e propria “Cecenia cinese”, ma la ribellione nello Xinjiang sta crescendo rapidamente. Gli attacchi contro i cinesi sono sempre più gravi e frequenti. Dal mese di marzo 176 persone sono state uccise in sei diversi attentati contro la polizia cinese e altri funzionari governativi, collaboratori locali e comuni abitanti cinesi della Regione autonoma uigura dello Xinjiang, nella Cina nordoccidentale, e le autorità non sembrano avere idea di cosa fare.

Gli attentatori uiguri hanno usato soprattutto coltelli o esplosivi (è difficile procurarsi armi da fuoco in Cina), ma nessuno pensa che siano così arretrati dal punto di vista tecnologico che le loro bombe debbano essere accese a mano. Eppure il mese scorso la polizia cinese ha sequestrato decine di migliaia di scatole di fiammiferi in Xinjiang.

“La confisca ci ha aiutato a rafforzare i controlli su elementi importanti della sicurezza pubblica, eliminando di conseguenza potenziali minacce”, ha dichiarato la polizia di Kashgar. Secondo il sito della polizia di Changji la misura serve “a garantire che i fiammiferi non vengano utilizzati da gruppi terroristi e da singoli estremisti per compiere attività criminali”. Non voglio mancare di rispetto a nessuno (beh, forse solo un pochino), ma questa non è gente seria.

I ribelli, invece, fanno decisamente sul serio. Come gran parte dei movimenti indipendentisti di epoca coloniale, sono convinti che è necessario portare la guerra nella patria dell‘“oppressore”. Uno degli ultimi attacchi non si è verificato nello Xinjiang, ma a Kunming, nella Cina sud-occidentale, dove otto uiguri armati di coltelli hanno ucciso 29 comuni cittadini cinesi e ne hanno feriti 143 nella stazione ferroviaria.

Un’altra tattica comunemente impiegata in questo tipo di guerre è l’uso della violenza per impedire alla propria gente di collaborare con la potenza coloniale. Il 20 giugno Jume Tahir, l’imam della moschea di Kashgar, la più grande della Cina, è stato accoltellato a morte poco dopo aver guidato le preghiere del mattino. Il suo crimine? Aver lodato le politiche del Partito comunista attribuendo ai separatisti e agli estremisti uiguri la responsabilità della crescente ondata di violenza.

Gli uiguri sono in maggioranza musulmani sunniti, e la linea ufficiale cinese attribuisce la violenza separatista a islamisti stranieri che istigano le popolazioni locali. I separatisti, dal canto loro, sostengono che questa sia una risposta legittima all’oppressione cinese, e in particolare alla politica del governo cinese di inondare lo Xinjiang di immigrati cinesi han nel tentativo di modificare l’equilibrio demografico del territorio. La verità, come sempre, è molto più complessa.

Lo Xingjiang (letteralmente “Nuovo territorio”) è stato conquistato dalle truppe cinesi a metà del diciottesimo secolo, ma la composizione demografica non era cambiata. All’inizio dell’ottocento un censimento mostrava una popolazione composta per il 30 per cento di cinesi han (residenti quasi tutti a nord delle montagne del Tien Shan) e per il 60 per cento da uiguri, contadini musulmani che parlano una lingua turca e comprendono la quasi totalità della popolazione a sud delle montagne. Il resto erano kazaki, hui, mongoli e altri.

Secondo il censimento del 1953 gli uiguri erano aumentati fino a rappresentare il 75 per cento dell’intera popolazione, e molti di loro vivevano a nord delle montagne. I cinesi han erano crollati a un misero 6 per cento. Adesso però, grazie a un’immigrazione su vasta scala, i cinesi costituiscono il 40 per cento della popolazione dello Xingjiang, mentre i 10 milioni di uiguri rappresentano il 45 per cento.

Questo significa che i numeri possono essere usati a sostegno di qualsiasi argomentazione, basta scegliere con cura i dati dei censimenti. Quel che è certo è che i cinesi han non sono nuovi arrivati nello Xingjiang, e probabilmente non è vero che il governo cinese sta incoraggiando l’immigrazione han per ridurre gli uiguri a una minoranza marginale.

I funzionari cinesi dichiarano di voler promuovere lo sviluppo dell’economia dello Xingjiang e migliorare i livelli di vita locali, con l’obiettivo (non dichiarato) di rendere la gente abbastanza ricca e contenta da non poter concepire l’idea di “tradire la madrepatria” chiedendo l’indipendenza. Il punto è che un’economia sviluppata richiede competenze che gli uiguri non hanno, così molti cinesi han arrivano per svolgere i lavori più qualificati.

I funzionari di Pechino utilizzano gli stessi argomenti per il Tibet, e probabilmente anche in quel caso le loro intenzioni sono sincere. Hanno solo dei paraocchi culturali che li rendono incapaci di capire come questo fenomeno possa essere interpretato dagli uiguri, che vedono arrivare sempre più cinesi che si aggiudicano i posti di lavoro migliori.

A questo bisogna aggiungere il rancore per gli attacchi alla cultura e dalla religione degli uiguri durante la Rivoluzione culturale, e che in misura minore continuano ancora oggi, soprattutto per opera di funzionari governativi ignoranti che non hanno mai vissuto fuori da un contesto culturale esclusivamente cinese. Oggi poi a disposizione di chi vuole ribellarsi c’è anche un’ideologia islamista radicale.

Per questo nello Xingjiang la situazione si sta facendo piuttosto seria: nell’ultimo incidente, avvenuto il 28 giugno, centinaia di uiguri hanno assaltato una stazione di polizia e degli uffici governativi armati di coltelli e asce. Almeno 59 aggressori sono stati uccisi e 215 arrestati, e 37 civili (presumibilmente cinesi) sono stati assassinati. Quando ci sono gruppi organizzati in grado di compiere violenze simili, ci si trova già in una fase di guerra a bassa intensità.

Probabilmente la situazione non sarà mai così grave come quella cecena, ed è piuttosto improbabile che lo Xinjiang ottenga l’indipendenza, ma questa potrebbe diventare una guerra lunga e feroce, con molti morti. Se non altro la Cina ha ancora i fiammiferi sotto controllo.

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