Vogliamo davvero farci trovare dagli alieni?
Ho molto apprezzato il furioso dibattito che si è scatenato di recente tra gli astronomi sulla convenienza o meno di spedire nell’universo dei segnali in cui diciamo “siamo qui”. Ciò sottintende implicitamente che, con un adeguato sviluppo scientifico, il viaggio interstellare è in qualche modo possibile.
L’ho apprezzato perché odio l’idea che la razza umana non sarà mai in grado di andare oltre questo piccolo sistema planetario che si trova “lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche dell’estremo limite della spirale ovest della Galassia”, come scrive Douglas Adams nel suo Guida galattica per autostoppisti.
Abbiamo bisogno di qualcuno che faccia alla fisica di Einstein ciò che lo stesso Einstein ha fatto a quella di Newton. Ma mentre aspettiamo fa piacere sapere che degli scienziati piuttosto adulti (a dire il vero sono astronomi, non fisici, ma va bene lo stesso) ritengano utile discutere sui rischi di far sapere agli alieni che esistiamo.
Mi sono perso il dibattito che ha avuto luogo alla conferenza annuale dell’Associazione americana per il progresso della scienza a San José, il mese scorso, perché all’epoca mi trovavo su Marte. Be’, diciamo in un posto che somigliava davvero un po’ a Marte. Ma ecco un paio di citazioni che danno un’idea della situazione.
“Qualsiasi società in grado di arrivare qui e rovinarci la giornata incenerendo il pianeta sa già che esistiamo”, ha dichiarato il dottor Seth Shostak, direttore del Centro per la ricerca di intelligenze extraterrestri (Seti) della California.
Non era d’accordo lo scienziato e scrittore di fantascienza David Brin, secondo cui “la presunzione di urlare nel cosmo senza un’appropriata valutazione dei rischi è semplicemente incredibile. È una scelta che metterebbe in pericolo i nostri nipoti”. Se inviamo loro dei messaggi, potrebbero venire qui e ridurci in schiavitù, o semplicemente mangiarci.
Ora, un modo per chiudere questo dibattito sarebbe far notare che è ormai un secolo che lanciamo segnali radiotelevisivi. Ciò significa che qualsiasi pirata intergalattico che si trovi a un centinaio di anni luce da qui sa già dove ci troviamo. Ma viene fuori che la realtà non è esattamente questa: superato un anno luce di distanza, i nostri segnali radio e televisivi cominciano a sparire, fondendosi nel rumore di fondo dello spazio. Visto che la stella più vicina si trova a più di quattro anni luce di distanza, non ci sono molte probabilità che i klingon, i vogon o qualche altra minacciosa civiltà sappiano già che siamo qui.
D’altro canto è vero che potenti segnali radar, come quelli che abbiamo usato per mappare la superficie degli altri pianeti del sistema solare, viaggiano per lunghissime distanze. Sono più di vent’anni che li lanciamo nello spazio e non contengono molte informazioni (praticamente dicono solo “c’è qualcuno in grado di generare microonde”), ma potrebbe essere abbastanza per attirare attenzioni non gradite.
Questo nuovo dibattito ruota in realtà attorno alla “Ricerca di intelligenze extraterrestri (Seti) attiva”. Sono più di quarant’anni che ci dedichiamo alla “Seti passiva”, cioè al tentativo di ascoltare messaggi provenienti da civiltà di altre stelle, utilizzando grandi radiotelescopi capaci di captare segnali anche molto deboli. Ma esistono regole piuttosto rigide su chi dovrebbe rispondere se intercettassero un messaggio.
Il primo protocollo, redatto dal comitato Seti dell’Accademia internazionale di astronautica nel 1989, afferma che “non deve essere inviata alcuna trasmissione in risposta a un segnale o a un’altra prova di intelligenza extraterrestre finché non avranno avuto luogo le appropriate consultazioni internazionali”. Ma i sostenitori della “Seti attiva” vogliono eliminare questo paragrafo e lanciare una chiamata generale all’universo.
Uno dei motivi per cui il dibattito si è fatto più acceso è che sappiamo che i pianeti non sono certo una cosa rara. Sono passati solo vent’anni da quando è stata confermata per la prima volta l’esistenza di un pianeta extrasolare, ma oggi ne conosciamo già 1.906. Perlopiù orbitano intorno a stelle piuttosto vicine e solo una piccolissima parte ha caratteristiche simili alla Terra. Il numero effettivo di pianeti simili alla Terra però potrebbe essere molto più alto, dato che è molto più semplice individuare giganti gassosi come Giove o Saturno.
Esistono probabilmente centinaia di migliaia di pianeti vicino a noi (ci sono 260mila stelle nel raggio di 250 anni luce). Se anche solo qualche migliaio di essi fosse simile alla Terra, è probabile che prima o poi qualcuno si farà vivo, rispondendo ai messaggi che inviamo. Ma ciò avverrà se, e solo se, sarà effettivamente possibile viaggiare a velocità simili o superiori a quella della luce.
Nessuno ha idea di come si possa viaggiare alla velocità della luce. La nostra attuale comprensione della fisica dice che è impossibile. Ma sarebbe un dibattito davvero sciocco se gli scienziati fossero davvero tutti convinti che non esiste alcuna possibilità di eludere l’attuale limite di velocità.
Non affermeranno mai che sia possibile poiché non sono in grado di spiegare come sia possibile e, di conseguenza, il rischio per la loro reputazione sarebbe enorme. Ma sono molto felici di lanciarsi in un dibattito che sarebbe totalmente irrilevante se non pensassero che esiste una possibilità, per noi o per un’altra civiltà nelle nostre vicinanze galattiche, di trovare un giorno la maniera di farlo. E questo mi tira molto su di morale.
(Traduzione di Federico Ferrone)