Il vaso di Pandora della Malesia
“Non esiste più uno stato di diritto”, ha dichiarato Mahatir Mohamad, 90 anni, primo ministro della Malesia per 22 anni. “L’unica cosa da fare è rovesciare questo primo ministro”.
Nell’ultimo anno Mahatir ha criticato apertamente il premier Najib Razak, nonostante appartengano entrambi allo stesso partito politico, l’Organizzazione nazionale malese unita (Umno). Ma stavolta ha espresso le sue accuse durante una manifestazione di massa di due giorni nel centro di Kuala Lumpur.
Di solito in Malesia le manifestazioni di protesta vengono disperse dalla polizia, anche se il sistema politico è formalmente democratico. Stavolta però le forze dell’ordine sono rimaste tranquille. Ci sono state le solite polemiche sul numero dei manifestanti, con gli organizzatori che rivendicavano la presenza di trecentomila manifestanti contro i ventimila stimati dalla polizia, ma la cosa importante è che Mahatir si è fatto vedere e ha espresso il suo sostegno.
La Malesia non è una democrazia normale. Di fatto è uno stato monopartitico fin dalla sua indipendenza
Ci sono certamente buone ragioni per chiedere le dimissioni di Najib. A luglio il Wall Street Journal ha rivelato che sul suo conto in banca erano stati trasferiti settecento milioni di dollari provenienti dal fondo d’investimento statale 1mdb, oggi gravemente indebitato, che lo stesso Najib aveva istituito nel 2009 poco dopo essere diventato primo ministro.
Inizialmente Najib ha semplicemente negato tutto. Ha licenziato il suo vicepremier, Muhyiddin Yassin, per aver criticato il modo in cui ha gestito la questione, e anche il ministro della giustizia, Abdul Gani Patail, che guidava l’indagine sullo scandalo. In seguito, quando non era più possibile negare, i suoi consiglieri hanno sostenuto che non provenisse dal fondo 1mdb ma fosse una “donazione politica” proveniente da non meglio precisati donatori mediorientali.
Che il denaro fosse davvero stato sottratto al fondo d’investimento o semplicemente donato a Najib da una “ricca famiglia araba”, la sua finalità era chiara. Non era per arricchire personalmente il premier, ma per rovesciare l’esito delle elezioni del 2013, che il suo partito rischiava di perdere.
In una democrazia normale, accettare una simile cifra dall’estero per vincere le elezioni o sottrarla da un fondo d’investimento nazionale sarebbero entrambi crimini, ma la Malesia non è una democrazia normale. Di fatto è uno stato monopartitico fin dalla sua indipendenza, nel 1957: la stragrande maggioranza degli appartenenti all’etnia malese votano per l’Umno e i suoi alleati al fine di conservare i privilegi speciali di cui godono nel paese.
Una maggioranza di malesi di origine indiana e cinese ritengono che mezzo secolo di privilegi per la comunità malese sia abbastanza
I malesi, che sono quasi tutti musulmani, erano la popolazione originaria di gran parte del paese e rappresentano ancora il sessanta per cento della sua popolazione.
Ma l’immigrazione di massa di cinesi e indiani nell’ottocento ha spostato gli equilibri: oggi i sino-malesi sono circa un quarto della popolazione, mentre le persone di origine indiana circa un decimo.
Per di più, sono i cinesi a dominare il paese dal punto di vista economico, un fatto che ha portato alle sanguinose proteste del 1969. Da allora l’etnia malese ha ottenuto alloggi più economici, la precedenza negli impieghi governativi e nelle licenze commerciali e, in pratica (anche se in teoria non è più così), un più facile accesso ai corsi universitari, in modo da aiutarli a recuperare il ritardo economico rispetto alla comunità cinese e quella indiana.
Questa politica ha avuto un discreto successo, e i redditi medi familiari delle tre comunità hanno finito per convergere. Le famiglie di etnia malese, che nel 1970 guadagnavano circa il quaranta per cento di quelle cinesi, erano arrivate al settanta per cento nel 2009. Molti cittadini di etnia malese, tuttavia, ritengono che questo favoritismo istituzionale sia ancora necessario, e votano l’Umno affinché lo mantenga. D’altro canto, una maggioranza di malesi di origine indiana e cinese ritengono che mezzo secolo di privilegi per la comunità malese sia abbastanza.
L’economia della Malesia ha rallentato da quando il prezzo del petrolio e le esportazioni verso la Cina hanno cominciato a calare
Per questo motivo la maggioranza dei dimostranti che hanno partecipato alle proteste dello scorso fine settimana a Kuala Lumpur erano di origine cinese o indiana. Le malefatte finanziarie di Najib offrivano una giustificazione per le proteste, e anche se molti cittadini di etnia malese avrebbero voluto che il primo ministro cedesse, non hanno preso parte alle proteste poiché vedevano dietro di esse un progetto politico più ampio.
Le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che tutti i cittadini di etnia malese sono musulmani, mentre praticamente nessun altro in Malesia lo è. Mahatir ha sfruttato le manifestazioni per rafforzare la sua campagna per deporre Najib nel quadro di un conflitto interno all’Umno, ma di certo non vuole porre fine alla dominazione politica del paese da parte dei musulmani malesi o mettere fine ai loro privilegi.
“Che saranno mai ventimila manifestanti? Noi possiamo radunarne centinaia di migliaia”, ha detto Najib dopo le proteste. “Il resto della popolazione della Malesia è con il governo”. Questo vale almeno per la maggioranza dell’etnia malese, specialmente nelle aree rurali, il che è probabilmente sufficiente a tirare Najib fuori dai guai, a meno che la situazione economica della Malesia non peggiori.
L’economia della Malesia ha rallentato paurosamente da quando il prezzo del petrolio e le esportazioni verso la Cina hanno cominciato a calare. La moneta della Malesia, il ringgit, è in caduta libera. Se le cose continueranno a peggiorare, Najib dovrà andarsene.
Al di là delle ingiustizie che esistono nel paese, forse è meglio per tutti che il vaso di Pandora delle etnie rimanga chiuso per un po’. L’Umno dovrebbe pensare seriamente a un successore che sia accettabile per tutti.
(Traduzione di Federico Ferrone)