Ormai l’Iraq è uno stato fallito
Gli immobili nel centro di Baghdad sono cari come a Londra, eppure il pil dell’Iraq è sceso del 70 per cento da quando il prezzo del petrolio è crollato. Le bombe del gruppo Stato islamico (Is) devastano regolarmente parti della capitale eppure il mercato immobiliare è in piena espansione. Perché?
Il motivo è che in Iraq c’è moltissimo denaro sporco che deve essere riciclato. Per chi non ha gli agganci politici che servono per trasferire i soldi all’estero, la scelta più sicura è investirlo in proprietà immobiliari. Ma neanche questa è un’opzione molto sicura, dato che è sull’orlo del collasso l’intero sistema pseudodemocratico lasciato in eredità dagli Stati Uniti all’Iraq.
Il 30 aprile l’intrusione di migliaia d’iracheni inferociti nella zona verde, l’ampio complesso governativo di Baghdad circondato da mura a prova di bomba, ha segnato probabilmente l’inizio della fine dell’attuale assetto politico dell’Iraq. Se ne sono andati solo due giorni dopo, dopo aver lanciato un ultimatum per una riforma radicale del governo, promettendo di tornare se le loro richieste non saranno soddisfatte.
Un sistema corrotto
Questo non accadrà, quindi presto le proteste ricominceranno. L’ex primo ministro Nuri al Maliki, rimosso dal suo incarico nel 2014 dopo che l’Is aveva conquistato l’ovest dell’Iraq, sta progettando un ritorno al potere insieme ad altri partiti. Potrebbe non riuscirci, ma lui e i suoi alleati sono sicuramente in grado di evitare l’approvazione di buona parte delle misure a loro sgradite.
Quel che unisce Al Maliki e gli altri cospiratori è la determinazione a mantenere in piedi un sistema profondamente corrotto che gli ha permesso di depredare le ricchezze petrolifere del paese per anni. Oggi i proventi del petrolio sono diminuiti molto, ma restano praticamente l’unica fonte di entrate dell’Iraq e loro non hanno intenzione di rinunciarvi.
L’uomo che ha preso il posto di Al Maliki, Haider al Abadi, al confronto è un riformatore. Appartiene allo stesso partito di Al Maliki, Dawa, e non può allontanarsi troppo dalla sua base di potere. Tuttavia un anno fa ha promesso che avrebbe sostituito molti ministri scelti dai partiti della coalizione al potere con dei “tecnocrati” che sarebbero (in teoria) meno propensi ad appropriarsi del denaro pubblico.
La crisi economica è diventata più pericolosa dello scontro militare con lo Stato islamico
Ma Al Abadi non è stato in grado di mantenere la sua promessa, perché qualsiasi rimpasto ministeriale deve essere approvato dal parlamento. Nessuno dei partiti che siedono al suo interno era disposto a rinunciare ai propri ministri, e con essi alla possibilità di dirottare il flusso di denaro pubblico nelle proprie tasche. Per tre volte le riforme proposte da Al Abadi sono state bocciate in parlamento.
Alla fine di aprile Moqtada al Sadr, un religioso che gode di un grosso seguito tra i tanti sciiti poveri di Baghdad, ha ordinato l’invasione della zona verde. Questo ha spinto il parlamento ad approvare cinque delle sostituzioni proposte da Al Abadi, ed è probabile che altre saranno approvate a breve.
Ma sostituire qualche ministro non metterà fine al saccheggio dei fondi pubblici, una pratica profondamente radicata in tutto il sistema. Si potrebbe dire, anzi, che la corruzione è il sistema in vigore in Iraq.
Riserve in esaurimento
Come molti altri paesi petroliferi, l’Iraq distribuisce parte del denaro ai suoi cittadini, remunerandoli per svolgere dei finti impieghi. Buona parte dei fondi restanti li rubano le 25mila persone che ricoprono alte cariche amministrative, politiche o militari. Ai lavori pubblici è quindi destinata solo una piccola parte di questi fondi.
Ci sono sette milioni di dipendenti pubblici in Iraq, ovvero la maggioranza della popolazione maschile adulta, e la maggior parte di loro non svolge praticamente nessuna attività lavorativa. Alcuni di essi non esistono neppure, come i “soldati fantasma” il cui salario è incassato dai loro ufficiali. In totale i loro stipendi ammontano a circa quattro miliardi di dollari al mese, una cifra accettabile quando i proventi del petrolio erano ancora sei miliardi di dollari al mese.
Adesso però le entrate petrolifere sono scese a due miliardi di dollari al mese. La banca centrale ha coperto la differenza con le riserve, che però si stanno esaurendo. La crisi economica del paese è diventata più pericolosa dello scontro militare con l’Is, anche se gran parte della classe politica irachena sembra non essersene resa conto.
Il sistema funziona talmente male che non è stato fatto quasi niente per riparare la diga di Mosul, che potrebbe crollare e sommergere la città con un’onda alta 24 metri. L’inondazione sarebbe meno grave a Baghdad, che si trova molto più a valle, ma basterebbe comunque a far crollare il valore degli immobili per molto tempo.
Si parla molto delle vittorie dell’esercito iracheno contro l’Is, ma è solo propaganda. Gli unici progressi ottenuti dall’esercito iracheno sono dovuti ai massicci bombardamenti statunitensi. L’attenzione del governo è rivolta altrove, e anche quella dei cittadini. Solo l’Is continua a osservare attentamente.
(Traduzione di Federico Ferrone)