Manchester e Bangkok, due attentati e due reazioni diverse
Il 22 maggio sono esplose due bombe. Quella nel Regno Unito ha colpito alcune persone che uscivano da un concerto alla Manchester Arena, uccidendone almeno 22 e ferendone 120. L’attentatore suicida si chiamava Salman Abedi e l’attacco è stata rivendicato dal gruppo Stato islamico (Is). L’altra è esplosa in Thailandia, ha ferito 22 persone in un ospedale controllato dall’esercito a Bangkok, e finora nessuno l’ha rivendicata. Ma le differenze stanno soprattutto in quel che è successo dopo.
A Manchester la gente ha mantenuto la calma cercando di andare avanti. La band scozzese dei Simple Minds non ha cancellato il suo concerto, previsto alla Bridgewater Hall di Manchester il 23 maggio, e l’80 per cento delle persone che avevano comprato i biglietti si è regolarmente presentato ai cancelli. Il cantante Jim Kerr ha detto al pubblico che si sarebbero sentiti dei codardi se non si fossero esibiti. Il complesso ha poi osservato un minuto di silenzio prima di scatenarsi sul palco.
La reazione è stata simile in tutto il paese. Dappertutto le bandiere erano a mezz’asta e perfino la campagna per le elezioni politiche, che si terranno l’8 giugno, è stata temporaneamente sospesa. Ma nessuno ha suggerito che le elezioni dovessero essere cancellate. Non sarebbe solo una decisione vile, sarebbe ridicola.
Il generale ha paura delle elezioni
In Thailandia le cose sono andate diversamente. A Bangkok non ci sono stati morti, e la bomba non aveva chiaramente l’obiettivo di uccidere delle persone, bensì di segnare il terzo anniversario del recente colpo di stato militare. Probabilmente i responsabili appartengono a una fazione marginalizzata dell’esercito (anche se le autorità daranno forse la colpa agli attivisti filodemocratici).
Ma la reazione del capo della giunta militare, il generale Prayuth Chan-o-cha, è stata assolutamente spropositata. Prendendo il potere nel 2014, Prayuth aveva promesso di tenere delle elezioni nel 2015. Ricorrendo a vari pretesti, le ha poi rimandate al 2018, ma adesso sta avendo dei ripensamenti su tutta la faccenda. “Voglio che tutti si chiedano”, ha detto Prayuth, “se in un paese in queste condizioni, con bombe, armi e conflitti tra le persone, abbia ancora senso organizzare delle elezioni”.
La Thailandia è bloccata dal 2001 in un circolo vizioso d’instabilità civile e interventi militari
La risposta è evidentemente affermativa. Perché mai un’esplosione dovrebbe impedire di organizzare delle elezioni? I “conflitti tra le persone” sono una cosa inevitabile, per qualsiasi società, e le elezioni sono il modo in cui questi vengono risolti (almeno temporaneamente) senza violenza. Prayuth è solo innervosito all’idea del voto perché potrebbe ridare forza ai sostenitori della democrazia che sono stati ridotti al silenzio per paura.
Ma non dovrebbe essere così nervoso, perché ha già truccato le cose in maniera abbastanza meticolosa. La nuova costituzione, ratificata ad aprile, rende praticamente certo il fatto che sarà l’esercito a nominare il governo, anche in caso di elezioni libere.
A prova di Thaksin
Prayuth sta adottando un approccio appena più raffinato di quello delle persone che erano riuscite a provocare un intervento militare tramite interminabili, e spesso violente, manifestazioni a Bangkok. Pensavano che il miglior modo perché il governo restasse nelle mani giuste fosse semplicemente vietare a tutti i poveri di votare, ma Prayuth si è reso conto che una cosa simile avrebbe, ai giorni nostri, urtato la sensibilità di molti.
Il nuovo sistema di voto rende praticamente impossibile che un qualsiasi partito ottenga una maggioranza di seggi nella camera bassa dell’assemblea nazionale. E quella alta (il senato), dove siedono 250 persone nominate direttamente dall’esercito, avrà un ruolo fondamentale nella scelta di chi formerà i nuovi governi, a meno che nella camera bassa non emerga una chiara maggioranza.
La Thailandia è bloccata in un circolo vizioso d’instabilità civile e interventi militari da quando, nel 2001, è stato eletto il primo governo populista, guidato da Thaksin Shinawatra. L’élite e la classe media urbana sono rimaste sconcertate dal fatto che le risorse economiche, prima utilizzate a loro beneficio, fossero state dirottate a favore della maggioranza rurale e delle fasce più povere, e hanno quindi chiesto aiuto all’esercito.
Il primo colpo di stato militare è del 2006, ma quando i soldati hanno cercato di legittimare il governo tramite elezioni e con una nuova costituzione scritta dall’esercito, il partito di Thaksin ha vinto di nuovo. Dopodiché è andato volontariamente in esilio ma il suo partito, con vari nomi e diversi leader, ha continuato a vincere le elezioni.
Il partito, chiamato oggi Pheu Thai e guidato dalla sorella minore di Thaksin, è stato nuovamente estromesso dal potere da un colpo di stato militare nel 2014. Attualmente Prayuth Chan-o-cha e gli altri generali stanno nuovamente cercando di scrivere una nuova costituzione che eviterebbe alle persone “sbagliate” di vincere le elezioni. In teoria la cosa appare abbastanza “a prova di Thaksin”, ma Prayuth è chiaramente spaventato all’idea di verificarlo sul campo.
Il problema è che se gli elettori di Thaksin si dimostreranno sufficientemente organizzati, come è probabile che succeda, potrebbero sconfiggere il nuovo sistema elettorale dividendosi in vari partiti ma presentandosi con uno solo di essi in ogni collegio nel quale hanno una possibilità di vincere. Riunendo poi questi partiti in una coalizione quando si riunirà l’assemblea nazionale, otterranno un governo di maggioranza, vanificando la possibilità d’intervento del senato controllato dai militari.
La bomba del 22 maggio a Bangkok potrebbe anche essere il segno che stanno aumentando le divisioni all’interno dell’esercito. È probabile che perfino alcuni dei soldati abbiano dei dubbi sulla capacità dell’esercito di mantenere un controllo permanente sulla vita politica del paese, e anche sui modi autoritari del nuovo (e perlopiù impopolare) re. Il prossimo atto della lunga saga della ricerca di una vera democrazia in Thailandia potrebbe non essere troppo lontano.
(Traduzione di Federico Ferrone)