Nelle Filippine solo una buona politica può fermare i jihadisti
Fino a un mese fa praticamente nessuno, al di fuori delle Filippine, aveva mai sentito parlare di Marawi. Oggi è l’ultimo fronte in ordine di tempo nella guerra contro il gruppo Stato islamico (Is). Un’ulteriore prova, qualora ce ne fosse stato bisogno, che il terrorismo legato all’Is sopravviverà a lungo anche dopo la liberazione di Mosul e di Raqqa e l’uccisione o la cattura del “califfo Ibrahim” (Abubakr al Baghdadi).
“Abbiamo effettivamente sventato la creazione di una wilaya (una provincia del cosiddetto Stato islamico)”, ha dichiarato Ernesto Abella, portavoce del presidente filippino Rodrigo Duterte, con un’enfasi sicuramente eccessiva. La risposta delle forze armate delle Filippine è stata lenta e goffa. Quella politica del governo lassista e disattenta.
Non è neppure chiaro se il tentativo, da parte del gruppo di combattenti islamisti Maute, di prendere il controllo di Marawi, una città di secondaria importanza e con duecentomila abitanti nel centro dell’isola meridionale di Mindanao, fosse effettivamente un tentativo di creare una wilaya. Per poterne dichiarare una, infatti, occorre controllare una certa porzione di territorio, quindi i combattenti avevano i loro motivi di agire in questo modo, ma gli scontri sono cominciati quasi per caso.
Azione poco impressionante
I combattimenti sono cominciati in città dopo un tentativo fallito di arrestare Isnilon Hapilon, una figura di spicco di un altro e più grande gruppo islamista, chiamato Abu Sayyaf, il quale ha a sua volta dichiarato fedeltà all’Is. Il 23 maggio alcuni combattenti di questa formazione, insieme ad altri, si sono uniti al gruppo Maute, dominante nella regione di Marawi, in una rivolta generale. La reazione dell’esercito filippino è stata così esitante che i combattenti (tra i quattrocento e i cinquecento uomini) sono riusciti a impadronirsi della città.
I ribelli non erano abbastanza numerosi da tenere l’intera Marawi quando l’esercito si è ricompattato, ma nell’ultimo mese hanno tenuto sotto occupazione tra il 10 e il 20 per cento della città. Il governo dichiara di averne uccisi 280, a fronte di 69 vittime tra i soldati e 29 tra i civili, e promette che tutto sarà presto finito. Ma finora la sua azione è stata decisamente poco impressionante.
Poco impressionante è stato anche l’operato del governo guidato da “Rody” Duterte. Come ogni governo che l’ha preceduto ha sorvegliato in maniera poco attenta i mari delle Filippine, facilitando l’ingresso nel paese di combattenti stranieri.
Ed è stato perfino peggiore di qualsiasi precedente governo nel suo disprezzo verso la legge: la “guerra sporca” alla droga di Duterte ha provocato migliaia di uccisioni extragiudiziali. Si tratta di un enorme fattore di distrazione (oltre che di un grave crimine, naturalmente) ed è, di fatto, riuscito a sminuire il ruolo della polizia, dato che gli squadroni della morte svolgono efficacemente i suoi compiti.
Il problema della radicalizzazione tra i musulmani più emarginati potrebbe anche peggiorare
Ma più di tutto, Duterte è stato incapace di ratificare gli accordi di pace del 2014 con il principale gruppo separatista musulmano, il Fronte di liberazione islamico Moro (Milf). La formazione è islamica ma non estremista, e l’accordo le concedeva una notevole autonomia nell’area al centro di Mindanao che si trova sotto il suo controllo. Tuttavia la legge che avrebbe dovuto definire i termini d’applicazione dell’accordo si è arenata al congresso nel 2015, e non è più stata rimessa all’ordine del giorno.
Non avendo niente da offrire dopo il tentativo di raggiungere un compromesso di pace con il governo, i dirigenti del Milf non hanno potuto evitare che i suoi aderenti più estremisti passassero ad altri e più radicali gruppi legati all’Is o che ne condividono l’ideologia. La situazione a Mindanao è quindi peggiore di quanto non fosse all’epoca della firma degli accordi di pace.
Un incidente della storia
L’assedio di Marawi potrebbe finire tra una settimana: l’esercito sostiene che rimangono solo cento combattenti in città (anche se non si è dimostrato molto efficiente nel bloccare l’accesso alla città ed evitare che altri vi entrassero). Il più ampio problema della radicalizzazione tra i delusi e i più emarginati tra i musulmani di Mindanao continuerà, e potrebbe anche peggiorare. L’unica cosa che potrebbe fermarlo sarebbe un’efficace azione politica, ma con Duterte la cosa non viene presa in considerazione.
Il fatto che esista un problema simile è un incidente della storia. L’islam si è diffuso a est nelle isole dell’Indonesia e nelle Filippine grazie ai mercanti malesi. Quando gli spagnoli arrivarono, nel 1570, esistevano già vari sovrani musulmani nelle Filippine. Ma poche persone si erano già convertite all’islam, se si eccettua la regione di Mindanao, e sotto il governo spagnolo il resto delle Filippine è stato invece fatto convertire al cattolicesimo.
Fin qui niente di strano: la storia è piena d’incidenti simili. Ma è vero che i successivi governi filippini hanno favorito l’emigrazione di cittadini cristiani a Mindanao, e che i musulmani sono scesi oggi al 20 per cento della popolazione anche qui (in tutto il paese, solo il 5 per cento delle persone è musulmano).
Sono decenni che la richiesta di una “patria musulmana” nelle zone a maggioranza islamica di Mindanao è forte, e un governo filippino attento a simili questioni avrebbe fatto i necessari compromessi molto tempo fa. Non succederà con Duterte, ma nel peggiore dei casi ci si troverebbe di fronte a un brutto problema di portata locale, che non dovrebbe preoccupare il resto del mondo.
Non si può dire lo stesso per la vicina Indonesia, dove la popolazione è al 90 per cento musulmana e più del doppio di quella delle Filippine. Come ha affermato la scorsa settimana il comandante in capo dell’esercito indonesiano Gatot Nurmantyo, esistono cellule dormienti affiliate all’Is “in quasi ogni provincia dell’Indonesia”.
(Traduzione di Federico Ferrone)