La morte di Ali Abdullah Saleh non ferma la guerra nello Yemen
Ali Abdullah Saleh aveva preso il potere in Yemen nel 1978, a 36 anni. Lo aveva perso nel 2012, dopo le “primavere arabe”, e da allora ha fatto di tutto per riconquistarlo. Trentaquattro anni non erano stati abbastanza. Il 4 dicembre, però, la sua capacità davvero straordinaria di cambiare bandiera lo ha ucciso.
Saleh è stato a lungo l’uomo dell’Arabia Saudita nello Yemen, ma quando Riyadh gli ha voltato le spalle nel 2012 per mettere al suo posto il vicepresidente Abd Rabbo Mansur Hadi, Saleh ha perso la testa. Gran parte dell’esercito gli era ancora fedele, così ha fatto un’alleanza con le potenti tribù houthi nel nord (le stesse contro cui aveva combattuto sei volte in passato) per tornare al potere.
Nel 2014 i combattenti houthi e le forze di Saleh hanno preso il controllo della capitale Sanaa e il nuovo fantoccio dell’Arabia Saudita, il presidente Hadi, è scappato ad Aden, la seconda città del paese. In seguito Hadi si è rifugiato in Arabia Saudita. L’alleanza tra gli houthi e Saleh ha assunto il controllo di gran parte del paese.
Cacciabombardieri sauditi
Lo Yemen è molto importante per i sauditi, perché con i suoi 27 milioni di abitanti (quanto l’Arabia Saudita) è l’altro grande paese della penisola araba, sebbene sia molto povero e instabile. Il fatto che quasi la metà degli yemeniti segua il ramo sciita dell’islam (nella sua variante zaidita) è per il regime saudita un motivo di forte preoccupazione.
Queste distinzioni non hanno impedito agli houthi di coalizzarsi con gli uomini di Saleh (in gran parte sunniti), perché agli yemeniti queste cose non interessano un granché. Ma Riyadh è ossessionata dalla “minaccia sciita”, che significa soprattutto Iran, il loro rivale dall’altra parte del Golfo, ma i sauditi vedono complotti iraniani ovunque, soprattutto se sono coinvolti gli sciiti.
Dal 2015 più di ottomila yemeniti sono stati uccisi nei bombardamenti della coalizione saudita
La guerra civile in corso nello Yemen è probabilmente la ventesima lotta per il potere di questo tipo degli ultimi mille anni, e non si discosta più di tanto dalle precedenti. L’Iran di sicuro beneficia del panico dei sauditi, ma non ci sono prove che stia mandando agli houthi qualcosa di più che tanti in bocca al lupo. Riyadh e i suoi alleati invece stanno mandando i cacciabombardieri.
Nel marzo del 2015 l’Arabia Saudita e otto alleati arabi hanno lanciato una campagna di bombardamenti contro gli houthi e le forze di Saleh, un’operazione alla quale gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno fornendo supporto politico, logistico e di propaganda. Più di ottomila yemeniti sono stati uccisi dai raid aerei della coalizione e circa 50mila sono rimasti feriti. Tuttavia, negli ultimi due anni le posizioni sul campo sono rimaste praticamente ferme.
La scommessa persa di Saleh
La guerra aerea è costata molto all’Arabia Saudita, sia in termini economici sia dal punto di vista della reputazione, e sta diventando sempre più imbarazzante per l’uomo che l’ha lanciata, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Perciò Saleh ha pensato che potesse essere arrivato il momento di cambiare schieramento: avrebbe potuto spuntare un buon prezzo per le soffiate sugli houthi e forse perfino riconquistare la presidenza.
Ha finto di essere mosso da ragioni umanitarie. In un discorso trasmesso in televisione il 2 dicembre aveva fatto appello ai “fratelli negli stati confinanti e alla coalizione affinché mettano fine all’aggressione, interrompano l’assedio, aprano gli aeroporti e consentano l’accesso degli aiuti alimentari e il soccorso dei feriti, e noi volteremo pagina in virtù dei nostri rapporti di buon vicinato”.
Il passaggio sull’“aggressione” aveva lo scopo di tranquillizzare gli yemeniti, che non amano i sauditi. Ma quello che in realtà stava proponendo era un cambio di schieramento. La coalizione guidata dai sauditi ha risposto immediatamente, accogliendo con favore la decisione di Saleh di “prendere in mano la situazione e liberare lo Yemen dalle milizie leali all’Iran”.
Gli houthi si aspettavano il suo tradimento. Hanno accusato di Saleh di aver organizzato un colpo di stato contro “un’alleanza nella quale non aveva mai creduto” e Sanaa è stata travolta dai colpi dell’artiglieria pesante, mentre gli houthi muovevano guerra contro il loro ex alleato. Nonostante i raid aerei sauditi per aiutare le forze di Saleh, la mattina del 4 dicembre gli houthi si sono fatti strada fino all’abitazione dell’ex presidente.
Non c’è accordo su quello che è accaduto in seguito. Alcuni dicono che Saleh sia morto sotto le macerie della sua casa, fatta saltare in aria dagli houthi. Altri dicono che abbia cercato di scappare in auto, che sarebbe poi stata colpita da un razzo. Dalle immagini che circolano in rete si vede che Saleh era stato ferito mortalmente alla testa. La vecchia volpe alla fine è morta e la guerra civile all’interno della guerra civile probabilmente è finita.
Alcuni reparti dell’esercito di Saleh potrebbero continuare a combattere, ma senza l’ex presidente a tenerli insieme la maggioranza dei soldati alla fine tornerà con gli houthi o diserterà. Gli houthi saranno un po’ più deboli senza il sostegno di Saleh, ma finché i membri della coalizione non invieranno un gran numero di soldati sul campo in Yemen – e non ne hanno particolarmente voglia – gli houthi probabilmente manterranno il controllo della maggioranza del paese.
La guerra andrà avanti finché Mohammed bin Salman non si sarà stancato, o i sauditi non si saranno stancati di lui.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)