Il futuro del lavoro potrebbe essere un po’ meno minaccioso
La prima guerra mondiale ha accelerato l’emancipazione delle donne. La seconda ha portato alla creazione di uno stato sociale in tutti i paesi industrializzati. Quali grandi cambiamenti ci riserverà la crisi del coronavirus?
La pandemia non ha ancora ucciso decine di milioni di persone, e probabilmente non lo farà mai. Nessun grande impero è caduto, e non c’è nessun cattivo a cui dare la colpa. Eppure i cambiamenti che ci aspettano saranno altrettanto grandi di quelli venuti dopo le due guerre mondiali.
Uno di questi grandi cambiamenti sarà la velocità con cui si diffonderà l’automazione. Come ha detto l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella, “abbiamo assistito a due anni di trasformazioni digitali concentrate in due mesi”, con decine di milioni di persone che sono rimaste in casa e hanno lavorato da remoto. Molte di loro non torneranno a lavorare in un ufficio quando la minaccia del coronavirus arretrerà.
Cinque mesi di isolamento equivalgono dunque a cinque anni di trasformazione digitale? Probabilmente sì. Recentemente Twitter è diventata la prima grande azienda della Silicon Valley ad accettare questa nuova realtà, annunciando che “se i nostri dipendenti hanno un ruolo e una situazione che permette loro di lavorare da casa, e decidono di continuare a farlo per sempre, faremo in modo che sia possibile”.
I manager stanno capendo che seccatura sia dover dipendere da dipendenti in carne e ossa
Ma per tutte le persone che non possono lavorare da casa (e sono molte di più) questa non è esattamente una buona notizia. Per loro trasformazione digitale significa automazione e disoccupazione. Intervistando manager di 45 paesi diversi, la società di consulenza Ernst and Young ha rilevato che il 41 per cento di essi sta investendo in una maggiore automazione dei processi lavorativi.
Altri seguiranno questa strada. Se finora il settore dei servizi (a parte la vendita al dettaglio) è perlopiù sfuggito all’automazione è perché la nuova tecnologia è costosa, sconvolge le abitudini e infastidisce i clienti, non perché non esiste. Ma adesso la crisi sta obbligando i clienti ad abituarsi a questo genere di servizio. Allo stesso tempo proprietari e manager stanno capendo che genere di seccatura sia dover dipendere da dipendenti in carne e ossa.
Il processo che ha già distrutto le catene di montaggio (e ci ha dato Donald Trump) continuerà finché metà dei posti di lavoro esistenti sarà distrutta, come avevano previsto Carl Benedikt Frey e Michael Osborne dell’università di Oxford nel loro celebre studio del 2013. La loro previsione era per l’anno 2033, ma il coronavirus potrebbe anticipare i tempi.
C’è ancora denaro per tutti
L’altro grande cambiamento prodotto dal coronavirus, tuttavia, va in direzione opposta. Quando la disoccupazione è improvvisamente schizzata al 30 per cento, mentre nel mondo si moltiplicavano le misure d’isolamento, ci siamo trovati di colpo di fronte a un’anticipazione di quel futuro. E le mutazioni sociali ed economiche che potrebbero derivare dalla distruzione in massa di posti di lavoro a causa dell’automazione le stiamo sperimentando proprio adesso.
In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, si tratta di vera e propria disoccupazione, solo leggermente alleviata da contributi come gli assegni da 1.200 dollari firmati da Trump. Nella maggior parte dei paesi più ricchi, si tratta di una qualche forma di congedo retribuito, con il governo che paga tra il 75 e l’85 per cento dei salari delle persone in modo da permettergli di vivere dignitosamente finché non ricominceranno a lavorare, tre o quattro mesi dopo.
In entrambi i casi è una prospettiva che dà da pensare alle persone, un po’ come quella di venire impiccati l’indomani mattina. Molti di loro si accorgeranno che questo è il livello di disoccupazione che li attende tra non molto, e che in giro c’è ancora abbastanza denaro per permettere loro di tirare avanti comunque. O, nel caso degli Stati Uniti, che ci potrebbe essere se il governo volesse.
Gli attuali livelli di sostegno al reddito non sono sostenibili a lungo termine senza alzare le tasse
Da qui il passo è breve per arrivare all’idea che un reddito universale garantito è la soluzione a lungo termine per una società in cui metà dei posti di lavoro è stata distrutta dall’automazione, ma in cui la produttività è più alta che mai.
Perché si possa arrivare a tale conclusione sussistono, naturalmente, alcune condizioni. Gli attuali livelli di sostegno al reddito non sono mantenibili a lungo termine senza alzare significativamente le tasse. Inoltre servirebbe un’ampia condivisione dei posti di lavoro per evitare di creare una sottoclasse permanente di disoccupati, e per mantenere le persone connesse tra loro. Non ci sono formule magiche.
Ci stavamo già dirigendo senza accorgercene verso livelli di disoccupazione simili, semplicemente in tempi molto più lunghi. Oggi perlomeno ci siamo resi conto che cose di questo tipo possono accadere, e che possono essere gestite.
I servizi riprenderanno in maniera più o meno normale tra pochi mesi, o nel peggiore dei casi tra un anno, ma l’automazione sta ricevendo una grossa spinta e d’ora in poi sarà sempre con noi. Ma l’esperienza che stiamo vivendo in questo momento la rende molto meno spaventosa.
(Traduzione di Federico Ferrone)