La Birmania vota ma la democrazia è lontana
Quasi completamente oscurate dalla copertura globale di quelle statunitensi, anche in Birmania l’8 novembre si terranno le elezioni. L’esito è più scontato che negli Stati Uniti, anche se in questo caso confermerà il governo oggi al potere. Ma è solo tollerando un grandissimo crimine che la democrazia sopravvive in Birmania.
Aung San Suu Kyi, nota universalmente nel suo paese come “The lady” (la signora), ha ottenuto il premio Nobel per la pace per la sua lunga battaglia contro il regime militare. Nel 2015 sembrava proprio che avesse vinto. Il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), si era assicurata una schiacciante maggioranza in parlamento nelle elezioni di quell’anno, e Aung San Suu Kyi era diventata, di fatto, la leader del paese.
È vero, il suo titolo ufficiale è “consigliera di stato”, poiché l’esercito ha scritto la nuova costituzione appositamente per escluderla dalla presidenza (Suu Kyi ha due figli nati nel Regno Unito, e la costituzione impedisce alle persone con familiari stranieri di ricoprire tale incarico). Le forze armate controllavano effettivamente un quarto dei seggi in parlamento, ma in pratica “La signora” aveva le redini del governo. Nel 2016 c’è stata addirittura una sorta di riconciliazione formale con l’esercito, quando il capo di stato maggiore birmano, il generale Min Aung Hlaing, è andato a trovarla a Yangon nella sua residenza in riva al lago, dove Aung San Suu Kyi aveva trascorso quindici anni agli arresti domiciliari.
L’esercito birmano ha usato i piccoli e circoscritti attacchi terroristici come scusa per lanciare un vero “genocidio del ventunesimo secolo”
Ma l’esercito aveva ancora un asso nella manica. Nel 2017, nello stato del Rakhine (o Arakan), nella Birmania orientale, l’Esercito per la salvezza rohingya (Arsa) ha attaccato alcuni commissariati di polizia locali. Questo “esercito” era in realtà un gruppo di giovani, sconsiderati e male armati abitanti dei villaggi dove viveva la minoranza musulmana, mai riconosciuta ufficialmente, che uccidendo dei poliziotti hanno dato ai generali dell’esercito un pretesto per mettere Aung San Suu Kyi con le spalle al muro.
I rohingya sono discendenti delle truppe musulmane britanniche che aiutarono la dinastia buddista locale a risalire sul trono del regno rakhine, finito nelle mani degli invasori birmani nel 1430. Il re Narameikhla li incoraggiò a stabilirsi in quei territori. Sei secoli dopo i rohingya, rimasti musulmani, rappresentano circa un terzo della popolazione del Rakhine.
Tuttavia oggi i nazionalisti birmani hanno sviluppato una paranoia nei confronti della piccola minoranza musulmana (appena il quattro per cento della popolazione totale). Alcune altre aree dell’Asia meridionale e del sudest asiatico (Pakistan, Bangladesh, Malaysia, Indonesia) si sono convertite dall’induismo o dal buddismo all’islam in un passato piuttosto lontano, e la maggioranza buddista della Birmania è terrorizzata che oggi lo stesso possa accadere nel loro paese.
Oppure, più spesso, fingono di essere spaventati per poter usare la minoranza musulmana come capro espiatorio. In passato i diversi regimi birmani avevano revocato la cittadinanza ai rohingya, e gli estremisti buddisti del Rakhine hanno incoraggiato aggressioni contro la minoranza (gli attacchi dell’Esercito per la salvezza dei rohingya erano una risposta alle continue vessazioni subite), ma quanto ha fatto l’esercito nel 2017 ha superato ogni limite.
L’esercito birmano ha usato i piccoli e circoscritti attacchi terroristici come scusa per lanciare un vero “genocidio del ventunesimo secolo”. Ha distrutto villaggi rohingya, massacrato decine di migliaia di uomini, donne e bambini, e spinto il resto della comunità (730mila persone) oltre confine, in Bangladesh. E Aung San Suu Kyi si è sentita obbligata a difendere un simile comportamento.
Aung San Suu Kyi ha quindi fatto la sua scelta, e potrebbe essersi resa conto di quale gigantesca malvagità stava commettendo nel farlo
Un’ampia maggioranza di buddisti in Birmania condivide con l’esercito l’odio per i musulmani e la paura nei loro confronti. Criticare l’esercito per il genocidio era l’unico modo, per la leader de facto del paese, di perdere le elezioni dell’8 novembre. D’altro canto, negare il genocidio avrebbe significato perdere il sostegno del resto del mondo. Queste erano le due opzioni a sua disposizione.
Aung San Suu Kyi ha scelto la sopravvivenza politica, e in tutta la Birmania sono comparsi manifesti che la ritraggono insieme a importanti generali, con la scritta “Siamo con te”. Lo scorso dicembre si è persino presentata di fronte alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja per difendere l’esercito e negare il genocidio.
Uno degli inquirenti delle Nazioni Unite che ha esaminato le accuse, Antonia Mulvey, ha dichiarato fuori dall’aula, dopo la sua testimonianza, che “Aung San Suu Kyi non ha fatto niente per fermare le uccisioni. Avrebbe potuto chiedere l’aiuto della comunità internazionale all’epoca. E adesso, l’insulto finale, difende in tribunale il comportamento dell’esercito”.
Questo è un modo per descrivere il suo comportamento. L’altro sarebbe che ha deciso di sacrificare la sua reputazione internazionale di santa laica per preservare l’accidentato cammino della Birmania verso un futuro democratico.
Avrebbe potuto impedire all’esercito di compiere il massacro, il peggiore tra i tanti commessi contro varie minoranze in Birmania negli ultimi sessant’anni. Ed è anche vero che la “comunità internazionale” non sarebbe comunque intervenuta. E il gruppo etnico maggioritario, i bamar (birmani), che ha dominato il paese fin dai tempi dell’indipendenza, non l’avrebbe mai perdonata se avesse deciso di schierarsi con i rohingya.
Aung San Suu Kyi ha quindi fatto la sua scelta, e potrebbe essersi resa conto di quale gigantesca malvagità stava commettendo nel farlo. Il fine non giustifica i mezzi, ma il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, vincerà le elezioni domenica prossima.
(Traduzione di Federico Ferrone)