Il voto irlandese apre un futuro di instabilità
Quattro mesi fa il diplomatico britannico Jonathan Powell, uno degli strateghi delle trattative di pace per l’Irlanda del Nord, aveva lanciato l’allarme: gli accordi del Venerdì santo, che nel 1998 hanno messo fine a trent’anni di violenze nella regione, erano a rischio. “Quello che mi preoccupa è il vandalismo politico. Sembra che a loro non importi minimamente del danno che stanno facendo al fragile equilibrio politico nordirlandese”.
“Loro” sono il primo ministro Boris Johnson e il suo governo, che non hanno mai mostrato alcun riguardo per il sottile e fragile accordo di pace concluso un quarto di secolo fa dall’ex primo ministro Tony Blair e da Powell, allora suo capo di stato maggiore. Anzi, si può proprio dubitare che Johnson capisca cosa c’è in ballo.
Per la prima volta nei 101 anni di storia dell’Irlanda del Nord, le elezioni del 5 maggio hanno assegnato la maggioranza dei seggi al Sinn Féin, un partito cattolico e “nazionalista” che vorrebbe unificare l’Irlanda del Nord con la Repubblica d’Irlanda, il paese che occupa il resto dell’isola.
Il risultato ha turbato i tre partiti politici che finora si erano spartiti i voti dei protestanti (un tempo dominanti), ma non li ha sorpresi. Il tasso di natalità, più elevato tra i cattolici, aveva già prodotto una maggioranza cattolica nelle scuole del paese. A questo punto è possibile che il sorpasso sia avvenuto anche al livello della popolazione generale.
La leader del Sinn Féin in Irlanda del Nord, Michelle O’Neill, non ha ceduto alla tentazione di parlare di un referendum sull’unificazione, limitandosi a temi più concreti. La leader del partito a Dublino, Mary Lou McDonald (che potrebbe diventare la prossima prima ministra irlandese), ha inviato un messaggio a Belfast dicendo: “Non abbiate paura. Ci attende un futuro luminoso”.
Ma la verità è che in Irlanda del Nord molte persone sono spaventate, e non solo i protestanti. Venticinque anni di pace non sono bastati a dimenticare i precedenti trent’anni, segnati da quella che è stata sostanzialmente una guerra civile in cui persone che abitavano a pochi isolati di distanza si consideravano nemiche e gli attentati e gli omicidi settari erano all’ordine del giorno.
È troppo presto per scommettere su una transizione pacifica verso una repubblica irlandese unificata e priva di divisioni confessionali
Le vecchie paure e l’odio del passato stanno chiaramente scemando tra le persone nate dopo il 1998 (e anche in parte della popolazione più anziana), ma molti ritengono che sia ancora troppo presto per scommettere su una transizione pacifica verso una repubblica irlandese unificata e priva di divisioni confessionali.
Basterebbe un manipolo di agguerriti “lealisti” (protestanti) a far saltare l’intero processo, anche perché ancora oggi le armi e gli esplosivi nascosti non mancano di certo. I militanti, alla fine, avrebbero comunque la peggio, ma solo dopo anni di violenze e una nuova ondata di paura e risentimento.
Sfortunatamente è possibile che l’Irlanda del Nord si stia davvero avvicinando a uno scenario di questo tipo. In base all’accordo del Venerdì santo, infatti, qualsiasi governo del paese deve presentare una divisione dei poteri tra un “primo ministro” e un “vice primo ministro” provenienti dalle file dei due partiti maggiori. Nessun governo può essere formato in mancanza di questa garanzia.
In questo caso “vice” è solo un dettaglio, perché le due cariche hanno lo stesso potere. Il problema è che per i falchi protestanti questo rappresenta un insopportabile ridimensionamento. Per questo il Partito unionista democratico, principale partito protestante, si rifiuta di accettare l’incarico di “vice primo ministro”, in un deliberato atto di sabotaggio .
Effetto Brexit
Le regole prevedono che in caso di impossibilità di formare un governo si ritorni alle urne entro quattro-sei mesi. Se le nuove elezioni non producessero un risultato diverso (e perché mai dovrebbero?) si ritornerebbe al “governo diretto” da Londra, ovvero alla norma precedente agli accordi del Venerdì santo. A quel punto è prevedibile che anche i cattolici più oltranzisti si mobiliterebbero.
Niente di tutto questo è inevitabile, ma il grande progetto del partito nazionalista inglese rende questo scenario molto più probabile. Il grande progetto è naturalmente la Brexit, che automaticamente ha richiesto il ripristino di un confine reale tra l’Irlanda del Nord, parte del Regno Unito, e la Repubblica d’Irlanda, ancora parte dell’Unione europea.
L’accordo del Venerdì santo aveva magicamente reso invisibile quel confine, senza la necessità di controlli doganali o di passaporti. In questo modo i cattolici nazionalisti potevano sostenere di vivere già in un’Irlanda unita mentre i protestanti lealisti potevano sostenere che la “condivisione del potere” non significasse un reale cambiamento. Ma quando il Regno Unito ha lasciato l’Unione europea, quel gioco di prestigio ha smesso di funzionare.
Per mantenere invisibile il confine, Johnson ha dovuto spostarlo in mezzo al mare d’Irlanda, lasciando l’Irlanda del Nord all’interno dell’unione doganale dell’Unione europea. Oggi i controlli doganali vengono effettuati a bordo delle navi e degli aerei che dal Regno Unito sono diretti verso qualsiasi punto dell’isola d’Irlanda, compresa l’Irlanda del Nord.
I lealisti si sentono traditi e abbandonati, e hanno ragione. In segreto la maggior parte dei politici inglesi desidera da tempo “scaricare” i nordirlandesi, dunque l’unificazione prima o poi sarà inevitabile. Il problema è che in questo momento, in cui il cambiamento generazionale non è ancora completo, la marcia verso l’unificazione potrebbe produrre un’ultima ondata di violenze.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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