L’impunità saudita deve finire
Jamal Khashoggi, noto e autorevole corrispondente di guerra ed editorialista saudita, è scomparso il 2 ottobre dopo aver visitato il consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul. Khashoggi, opinionista del quotidiano statunitense Washington Post, era da tempo ormai un deciso oppositore dell’attuale leadership saudita.
Nella sua decennale carriera da giornalista Khashoggi ha lavorato per diversi quotidiani sauditi e panarabi e fino al 2010 è stato direttore di uno dei più discussi giornali del suo paese, Al Watan. In quegli anni, Khashoggi era riuscito a diventare un punto di riferimento per il giornalismo di qualità in Arabia Saudita. Sotto la sua guida il quotidiano si era spinto fino a chiedere riforme nel campo dell’istruzione e dei diritti delle donne, e a fare appelli al governo per una limitazione dei poteri della polizia religiosa.
Khashoggi ha pagato a caro prezzo la scelta di seguire una linea editoriale indipendente. È stato rimosso dal suo incarico non una ma due volte, in entrambi i casi per aver irritato la monarchia e aver generato polemiche. La prima volta, nel 2003, fu invitato a lasciare la direzione di Al Watan dopo appena due mesi perché aveva seguito una linea editoriale indipendente dal governo. Reintegrato nel 2007, fu di nuovo licenziato nel 2010, per “aver spinto il dibattito oltre i limiti consentiti nella società saudita”, ha scritto sul suo sito personale.
Ancora oggi, molti giornalisti sauditi, me compresa, ricordano il periodo di Khashoggi alla direzione di Al Watan con un misto di invidia e ammirazione.
Khashoggi voleva continuare a scrivere, in qualunque caso, fosse anche solo per consegnare ai posteri una memoria storica
Tra il 2005 e il 2009, lavoravo per il quotidiano saudita Al Madina come inviata dalla città di Jeddah. Come tutti gli altri giornali del paese, anche il mio era di proprietà di esponenti della famiglia reale e della ristretta cerchia di fedelissimi della monarchia. Era sotto lo stretto controllo del ministero della comunicazione, che per molti aspetti somiglia al famigerato ministero della verità descritto da Orwell nel romanzo 1984.
In quella atmosfera, avevo cominciato a seguire più da vicino il lavoro di Khashoggi ad Al Watan, e come donna e giovane giornalista lo consideravo un esempio perfetto di quello che un buon quotidiano saudita sarebbe dovuto essere. Tra le altre cose, il giornale faceva luce sugli abusi della polizia religiosa e sull’endemica violenza domestica nel paese.
Mentre Al Watan era una voce emergente e coraggiosa del liberalismo nel regno, il quotidiano Al Madina era una tribuna di ultraconservatori felici di aderire alla propaganda della monarchia in ogni aspetto. Di fronte al coraggio di Khashoggi mi sentivo sempre più amareggiata dalla censura che dovevo subire ad Al Madina.
Alla fine capii che non potevo più piegare la testa di fronte alle politiche oppressive dei dirigenti del giornale e dell’orwelliano ministero della comunicazione e decisi di pubblicare i miei articoli censurati su altre piattaforme in arabo che avevano sede al di fuori del regno. Ma sapevo che questa presa di posizione avrebbe inevitabilmente messo a repentaglio la mia vita e la mia libertà in Arabia Saudita. Perciò decisi di lasciare il paese. La stessa paura alla fine ha spinto anche Khashoggi ad andarsene, l’anno scorso, per salvaguardare la sua integrità intellettuale e la sua libertà di espressione.
Ho incontrato Khashoggi all’inizio di quest’anno a Oslo. Nei suoi occhi ho letto l’angoscia per il futuro del paese. Mi ha parlato dei suoi timori sulle possibili conseguenze delle strategie usate da Mohammed bin Salman, principe ereditario (e monarca di fatto), per creare coesione sociale nel paese.
Quella volta mi ha rivelato che alcuni membri dell’establishment (tra coloro che hanno contribuito a fondare il regno) sono ormai esclusi dalle riforme e costantemente umiliati dal principe ereditario e dai suoi fedelissimi. Mi ha dipinto un’immagine molto fosca del futuro dell’Arabia Saudita. Ma insisteva anche nel dire che avrebbe continuato a scrivere, in qualunque caso, fosse anche solo per consegnare ai posteri una memoria storica.
Le paure del principe
Mohammed bin Salman considerava Jamal Khashoggi una minaccia alla sua autorità, per diversi motivi. Innanzitutto, non era un analista occidentale, quindi il governo non poteva liquidare le sue critiche come la campagna diffamatoria di uno straniero. Inoltre, Khashoggi non era un semplice cittadino saudita, ma – a differenza dei tanti oppositori costretti all’esilio decenni fa e ormai distaccati dalla realtà del paese – è stato un importante esponente della società e dell’establishment del regno. Aveva lavorato per anni nei giornali sauditi, per un periodo era stato perfino un consigliere della monarchia e fino al 2017 aveva vissuto stabilmente in Arabia Saudita. Quindi molti sauditi lo consideravano uno di loro: una persona che ama il suo paese e che per esso desidera solo il meglio.
La sua figura di uomo inserito nell’apparato, che cerca di cambiare le cose dall’interno, gli dava una credibilità e un’ascendente senza precedenti tra i sauditi. E i suoi legami con i rappresentanti della vecchia élite, scontenti della direzione che sta prendendo il paese, preoccupavano il principe, che sembra avere molta paura di un possibile colpo di stato.
La monarchia pensa di potersi comportare così perché finora la comunità internazionale non gli ha mai chiesto conto dei suoi crimini
Un altro motivo per cui Khashoggi è diventato un bersaglio della monarchia saudita è che la sua critica adesso arrivava dagli Stati Uniti. Washington è sempre stata un’alleata importante per l’Arabia Saudita, ma da quando Bin Salman è diventato il leader di fatto del paese, le relazioni con gli Stati Uniti sono diventate ancor più necessarie per Riyadh. Il principe ha fatto di tutto per costruirsi un’immagine riformista negli Stati Uniti, nel tentativo di superare la crisi di legittimità in patria.
Ha pagato per avere pubblicità positiva su mezzi d’informazione e televisioni americane, ha invitato a palazzo importanti giornalisti statunitensi, ha sostenuto le lobby saudite a Washington e ha nominato suo fratello minore, il principe Khaled bin Salman, ambasciatore negli Stati Uniti. Tutto con un solo obiettivo: convincere i sauditi della sua legittimità di leader che gode del sostegno di una grande potenza mondiale.
Grazie alle sue pressioni politiche negli Stati Uniti, Bin Salman ha tentato di legittimare il cambio di successione dinastica che l’ha portato alla carica di principe ereditario, la concentrazione dei poteri nelle sue mani e in quelle di suo fratello, e infine i suoi sforzi di trascinare tutta la classe dirigente saudita a sostegno del suo progetto di riforma, senza alcun dibattito reale nel paese.
Eppure, tutti questi sforzi venivano messi a dura prova dalla voce di un autorevole cittadino, che si era guadagnato una fama di patriota e riformatore: Jamal Khashoggi.
Quando Khashoggi ha invocato riforme dalle pagine di Al Watan, è stato costretto a dimettersi. Quando ha criticato l’imposizione del piano di riforme di Bin Salman nel 2017, è stato messo a tacere e costretto all’esilio. Nonostante le minacce, ha sempre continuato a scrivere, a porre problemi e ad avanzare critiche. Ora è scomparso, e stando a quanto dicono le autorità turche, è stato messo per sempre a tacere.
La sua sorte terrorizza tutti quelli che osano criticare la casa degli Al Saud. Facendo sparire Khashoggi questo regime fascista ha messo in chiaro che da oggi tutte le voci critiche saranno trattate nel modo che più ritiene appropriato, senza alcuna considerazione per le convenzioni sui diritti umani, la diplomazia e i valori civili. Il governo pensa di potersi comportare così perché finora la comunità internazionale non gli ha mai chiesto conto dei suoi crimini.
Un momento di svolta
La monarchia saudita da tempo ormai usa la sua influenza economica e politica per terrorizzare gli stati democratici, dare la caccia agli attivisti dentro e fuori il paese, e commettere crimini di guerra in Yemen. Ha incarcerato dissidenti, rivali monarchici, riformisti, oppositori delle sue politiche economiche e sociali, studiosi e leader religiosi, attivisti per i diritti umani e per i diritti delle donne. Il regno saudita non ha mai subìto ripercussioni per questi crimini. Di fronte a tutto questo il mondo ha scelto di tacere, e di conseguenza la casa regnante si è sentita tanto sicura di sé da arrivare a far sparire un giornalista affermato come Jamal Khashoggi, nel suo consolato, in territorio straniero.
La sparizione di Khashoggi deve essere un momento di svolta. Il regime va denunciato e smascherato pubblicamente, ed escluso dai consessi internazionali, soprattutto quelli che si occupano dei diritti umani, come il Consiglio dell’Onu per i diritti umani e la Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, dove la sua presenza può essere molto dannosa.
Facendo sparire un importante giornalista e una delle voci critiche più forti dell’Arabia Saudita, il regno di Mohammed bin Salman sta dimostrando ancora una volta di essere una minaccia per i valori e l’ordine internazionale. Il mondo non può più permettersi di restare in silenzio.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Questo articolo è uscito su Al Jazeera.