L’uccisione di Shinzō Abe lascia il Giappone sotto shock
È successo tutto molto velocemente. L’ex primo ministro Shinzō Abe, che a due anni dalle sue dimissioni “per motivi di salute” era ancora il politico più influente del paese, e di certo del suo partito, stava parlando da poco più di un minuto di fronte a una stazione di Nara, città del Giappone centrale famosa per alcuni dei templi buddisti più importanti del paese. L’occasione era un comizio a sostegno del candidato locale del Partito liberaldemocratico in vista delle elezioni di domenica per il rinnovo di metà della camera alta del parlamento.
Come spesso accade alle manifestazioni politiche in Giappone, intorno ad Abe non c’era un cordone di sicurezza per tenere lontano il pubblico. “I politici sono convinti che ogni stretta di mano sia un voto assicurato”, ha spiegato un ufficiale di polizia, quindi è difficile negargli i bagni di folla. L’ex primo ministro era totalmente sguarnito di sorveglianza alle spalle. Da lì Tetsuya Yamagami, ex militare di 41 anni, ha potuto sparare due colpi con un’arma rudimentale fabbricata in casa: il primo è andato a vuoto, il secondo è stato fatale. Abe è morto sei ore dopo in ospedale a 67 anni, di cui più di otto spesi come primo ministro dal 2012 al 2020 (per quattro giorni non è diventato il leader più longevo della storia giapponese).
Il movente non è ancora chiaro, anche se sembra ormai escluso quello strettamente politico. Yamagami, che dopo aver sparato è rimasto fermo senza opporre resistenza quando gli agenti in borghese l’hanno atterrato e arrestato, è un operaio disoccupato da maggio che aveva lavorato nelle forze di autodifesa (le forze armate giapponesi) per tre anni a cavallo del 2005. Ha detto alla polizia che non ce l’aveva con le idee politiche di Abe, ma che ha colpito lui perché lo credeva vicino a un’organizzazione religiosa che ha mandato sul lastrico la madre. Nel suo appartamento la polizia ha trovato esplosivo e altre armi rudimentali.
Anche se non si è trattato di un omicidio politico, quello che è successo avrà indubbiamente conseguenze sul futuro politico del paese e del partito che lo guida quasi ininterrottamente dal dopoguerra, probabilmente già a partire dal voto di domani. Non è da escludere, infatti, che sull’onda dell’emotività molti elettori ormai stanchi e disinteressati tornino ai seggi. Non che al Partito liberaldemocratico, dato in ampio vantaggio dai sondaggi, servisse una spinta di questo genere, ma così “conquisterà più seggi del previsto alla camera alta ed emendare la costituzione sarà ancora più facile”, prevede il veterano degli analisti politici Sōichirō Tahara. La riforma della costituzione, con l’eliminazione della “clausola pacifista” che impedisce al Giappone di avere delle forze armate se non in funzione difensiva, è quella che Abe, nel pur lungo periodo a capo del governo, non è riuscito a mettere a segno. Pur avendo picconato la carta a suon di leggi fatte approvare sfruttando la maggioranza in parlamento e preparato il terreno per la sua modifica.
Il potere di Abe
Abe era “il politico più potente in Giappone, anche dopo due anni da ex premier”, ha commentato ieri alla tv indiana Tobias Harris, esperto di Giappone del Center for American progress e autore, nel 2021, della biografia di Abe intitolata The iconoclast. “Era il leader della corrente più influente del suo partito, di cui guidava il blocco conservatore in parlamento, e questo, insieme all’incredibile rispetto di cui godeva a livello internazionale, gli dava il potere di dettare ancora l’agenda di governo. Nel paese si stava aprendo un grande dibattito sulla difesa in cui Abe avrebbe giocato un ruolo fondamentale, la sua scomparsa lascia un enorme vuoto nel cuore della politica giapponese”.
L’aumento del budget per la difesa per arrivare a una maggior autonomia dagli Stati Uniti e lasciarsi alle spalle una volta per tutte un’eredità umiliante del dopoguerra; far guadagnare a Tokyo un ruolo centrale nello sforzo degli alleati di Washington per contenere l’assertività della Cina e rompere il tabù delle armi nucleari: anche se costretto a dimettersi perché coinvolto in una serie di scandali e travolto dalle ricadute della pandemia, l’ex premier era deciso a raggiungere i suoi obiettivi continuando a lavorare più o meno dalle retrovie.
È stato una figura estremamente divisiva, fiero di portare avanti l’eredità ultranazionalista del nonno, criminale di guerra e poi primo ministro, e del padre, ex ministro degli esteri, e capace di suscitare sentimenti molto forti tra i suoi oppositori. Ma mai nessuno si sarebbe immaginato una fine così cruenta, in un paese dove le regole sul possesso di armi da fuoco sono molto severe e dove il tasso di violenza è minimo.
Il Giappone non è nuovo agli attentati contro esponenti politici, ma la maggior parte risale a un’epoca lontana di grandi tensioni, in cui la violenza politica era palpabile.
A parte i precedenti più recenti, come quello del sindaco di Nagasaki Icchō Ito, ucciso nel 2007 da un uomo della yakuza, e quello del suo predecessore, Hitoshi Motoshima, assassinato da un estremista di destra nel 1990 due anni dopo i suoi commenti sulle responsabilità dell’imperatore Hirohito nella seconda guerra mondiale, l’epoca in cui i politici erano presi di mira è quella degli anni sessanta e settanta. Nel 1960 il nonno materno di Abe, l’allora premier Nobusuke Kishi, fu accoltellato a una coscia e sopravvisse, così come altri due primi ministri e un vice negli anni successivi.
Ma l’attentato più clamoroso, perché fu trasmesso in diretta tv durante un dibattito politico, è quello del 1960 in cui morì il leader del Partito socialista giapponese Inajiro Asanuma. Il 12 ottobre 1960 Otoya Yamaguchi, estremista di destra diciassettenne, si avventò su Asanuma sferrando un fendente con una wakizashi, una spada tradizionale a lama corta. Yamaguchi fu fermato, e poco dopo morì suicida in carcere. La ferità per Asanuma fu fatale.
L’episodio risale al periodo politico più violento della storia giapponese del dopoguerra, che lasciò una società traumatizzata e per lo più insensibile alla politica. Fu immortalato da Yasushi Nagao, un fotografo del Mainichi Shimbun che si trovava lì per seguire il dibattito e che grazie a quello scatto vinse il World Press Photo e l’anno dopo il Pulitzer, diventando il primo non statunitense a essere insignito del riconoscimento.
L’attentato ad Asanuma fu poi ripreso dallo scrittore Kenzaburō Ōe in un formidabile racconto, Seventeen, un lungo monologo interiore del diciassettenne solo e frustrato, che trova sollievo avvicinandosi all’estrema destra per poi arrivare a compiere l’omicidio (Marsilio in Italia lo pubblicò nel 1997 con il titolo Il figlio dell’imperatore insieme a un altro racconto complementare e mai uscito in Giappone, Morte di un giovane militante, che costò a Ōe e all’editore giapponese della rivista su cui comparve minacce di morte da parte dei gruppi della destra radicale).
Il Giappone di oggi è lontano anni luce da quell’epoca, e anche per questo i due colpi di arma da fuoco che ieri a Nara hanno ucciso Shinzō Abe hanno gettato il paese in uno stato di shock.
- L’omicidio di Shinzō Abe è un attacco a tutti noi: l’editoriale del Japan Times.
- Un assalto frontale ai nostri ideali democratici: l’editoriale dell’Asahi Shimbun.
- Abe ha cambiato il Giappone per sempre, scrive il giornalista Jake Adelstein.
- Dalla missione di liberare il Giappone dai limiti imposti dagli Stati Uniti dopo la guerra all’Abenomics e alla politica estera: l’evoluzione politica di Abe spiegata da Tobias Harris.
- L’eredità politica di Shinzō Abe nell’analisi di Craig Mark, che insegna alla facoltà di studi internazionali all’università femminile Kyoritsu di Tokyo.
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