Il piano contro la violenza sessuale è un’occasione mancata
Il piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, approvato il 7 maggio, nasce dal lungo e paziente lavoro volontario dei centri antiviolenza. Oltre che dall’impegno di larga parte del femminismo per far uscire la violenza maschile contro le donne dal confinamento nei casi di cronaca nera, nella patologia, nelle conseguenze del degrado sociale e dell’arretratezza di culture straniere. Ma di questo “precedente” storico, culturale e politico, benché ampiamente documentato, nella premessa del piano non c’è traccia.
Si parla di “fenomeno strutturale”, dovuto a rapporti di potere diseguali tra i sessi, della necessità di un “sistema integrato di politiche pubbliche” per la salvaguardia e promozione dei diritti umani delle donne, di azioni a favore delle vittime e interventi di contrasto alla violenza di genere, associata – nella ratifica alla convenzione di Istanbul (15 ottobre 2013, legge 119) – “alle disposizioni urgenti in materia di sicurezza” e “protezione civile”.
Il primo e unico passaggio in cui viene riconosciuta ai centri antiviolenza una “rilevanza” particolare e un legame con il femminismo, si trova negli “Obiettivi del piano”. Da quel punto in avanti saranno sempre accomunati, senza alcuna distinzione, alla realtà del privato sociale, del terzo settore, dell’associazionismo governativo.
Quale sia il significato da dare a “sinergia”, “azioni coordinate”, “governance multilivello” appare chiaro fin dall’inizio. La “democrazia attiva”, a cui il Piano sembra aspirare, prevede in realtà “due articolazioni diverse” che riportano poteri e valori dentro gerarchie note: al centro c’è la politica nella sua accezione tradizionale, dalla presidenza del consiglio, dalle amministrazioni statali fino agli enti locali, riuniti in un tavolo interistituzionale a cui spetta il compito di programmare, pianificare le azioni e coordinare in un sistema unico la varietà degli interventi; ai margini, come “sussidiarietà circolare”, stanno i servizi pubblici, il privato sociale, la società civile e le realtà che “hanno maturato esperienze significative nella presa in carico delle donne vulnerabili”, chiamati a partecipare “a livello tecnico” a un osservatorio nazionale sul fenomeno della violenza.
Non lascia molto sperare in fatto di riconoscimenti, autonomia, orizzontalità nei processi decisionali, neppure il tavolo di coordinamento che verrà istituito negli ambiti territoriali. L’eterogeneità dei soggetti che ne faranno parte, con compiti di indirizzo, programmazione, monitoraggio del fenomeno – prefettura, forze dell’ordine, procura della repubblica, comuni, asl, associazioni di pronto soccorso, eccetera – e la modalità con cui si prevede debbano essere realizzati i programmi con le parti interessate – protocolli di intesa, convenzioni, eccetera – la dicono lunga sulla macchinosa integrazione istituzionale e burocratica a cui vanno incontro i centri antiviolenza e tutto il patrimonio di sapere e di pratiche prodotto dal movimento delle donne.
Gli sbarramenti istituzionali
Non è nemmeno difficile immaginare che, nella difficoltà di scendere la scala dei molteplici sbarramenti istituzionali, anche i ristretti finanziamenti previsti per l’attuazione del piano finiranno nel contenitore più vicino al centro del controllo, la Banca dati, a cui spetta il sistema di monitoraggio del fenomeno a livello nazionale.
Dall’enfasi con cui viene descritta un’azione che dovrebbe essere solo di supporto si capisce con chiarezza qual è il senso complessivo di una legge che fa proprio, a parole, il dettato della convenzione di Istanbul sulla “necessità di promuovere cambiamenti socioculturali delle donne e degli uomini, al fine di eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni e qualsiasi altra pratica basata sull’inferiorità della donna”, mentre si muove di fatto su un terreno che è ancora quello della patologia e della criminalizzazione della violenza maschile.
Basta vedere la descrizione dei “dati” che dovranno affluire al centro per essere raccolti ed elaborati: “profili caratteristici delle vittime di violenza”, “informazioni relative al fatto violento (luogo, tipo di arma, motivazione addotta)”.
Posto in questi termini, non si vede in che cosa il monitoraggio del fenomeno – di cui si è fino a questo momento sottolineata la collocazione nella cultura maschile dominante, e quindi la sua “normalità” – potrà differenziarsi dalle “valutazioni del rischio nel sistema penitenziario”: “stabilire la pericolosità sociale del condannato”, “rilevare i bisogni, le carenze fisiopsichiche e le altre cause di disadattamento sociale che hanno portato alla condotta criminale”.
Perfino la scelta, secondo i dettami dell’Onu e del consiglio d’Europa, del “recupero e reinserimento degli uomini autori di violenza”, di per sé degna di attenzione, calata dall’alto e su un elenco di servizi eterogenei – forze dell’ordine, servizi sociosanitari, eccetera – arriva agli “operatori competenti nell’ambito del privato sociale per il reinserimento delle donne (centri antiviolenza)” nel modo più irriguardoso rispetto al fine stesso che il piano si propone: difesa della dignità, della libertà e dell’autodeterminazione delle donne.
È vero che analisi e indirizzi di largo respiro, mutuate dalla convenzione di Istanbul, compaiono nelle linee di indirizzo alla voce “Educazione” (“…includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati, il reciproco rispetto, la soluzione non violenta nei conflitti in rapporti interpersonali”), ma ecco che subito dopo, di nuovo, l’inclinazione del piano verso esiti punitivi si manifesta in modo evidente:
…gli insegnanti ‘sentinelle’ possono avvertire i segnali di allarme del disagio e indirizzare i minori in difficoltà presso le strutture del servizio sanitario nazionale individuate per la specifica presa in carico, quali i consultori familiari, i dipartimenti materno-infantili, i centri e gli sportelli antiviolenza…
L’impressione generale, restando sui contenuti e sulla visione di insieme del fenomeno, è che si sia tentato di tenere dentro tutto e il contrario di tutto: la centralità dello stato, delle sue amministrazioni, e il coinvolgimento dei soggetti non istituzionali, la questione della parità dei diritti, dello svantaggio femminile da colmare e la messa in discussione di una cultura che ha ingabbiato dentro stereotipi alienanti sia uomini sia donne.
Sui contenuti forse si può pensare che la discussione continui, ma una “governance” concepita come un immenso contenitore burocratico non è il modo migliore per attivare “sinergie” tra tutti i soggetti oggi impegnati nel contrasto alla violenza maschile contro le donne.
È vero che il rapporto tra il corpo e la legge ha sempre posto interrogativi e aperto conflitti. È capitato negli anni settanta, in due occasioni particolari: quando si discusse dell’aborto – se battersi per una legge che lo rendesse assistito e gratuito, e perciò riconosciuto come un diritto civile, o limitarsi a chiederne la depenalizzazione – e quando, nel 1975, furono istituzionalizzati i consultori.
Il desiderio di non perdere l’autonomia e le consapevolezze che nascevano da una pratica anomala come l’autocoscienza si è sempre accompagnato alla richiesta più o meno esplicita di una “parola pubblica” che riconoscesse alla questione uomo-donna – vista sotto il profilo della sessualità, maternità, salute, lavoro di cura, eccetera – il peso politico che ha sempre avuto.
Che la conquista di un diritto, la consegna alla legge e quindi alle politiche pubbliche di un’azione nata dal basso, con soggetti non istituzionali, potesse distorcere le finalità e i modi di agire con cui era nata, non era sfuggito neppure alle donne che in varie città italiane avevano creato gruppi e consultori autogestiti.
Sta accadendo di nuovo.