Amore lesbico e ombre cinesi
A qualche ora dalla cerimonia di premiazione del festival di Cannes 2015, ecco qualche riflessione su due dei film favoriti tra quelli in concorso, insieme a The Lobster, Youth e Saul Fia. Si tratta di Carol di Todd Haynes e Nie Yinniang (l’assassina) del regista Taiwanese Hou Hsiao-Hsien.
In un certo senso tutti e due sono lambiti dal dibattito sulla forma e la sostanza che ho sollevato nella recensione di Youth. Ma sia con Carol sia con Nie Yinniang le cose sono un po’ diverse. Nell’approccio sempre più autoriale di Sorrentino, è lo stile post-moderno del regista a provocare il disagio, per un pregiudizio vecchio come il mondo secondo cui c’è un rapporto inverso tra bellezza di superficie e gravità di contenuti.
In Carol, invece, e in modo analogo in Nie Yinniang, è solo in parte la scelta dei registi a determinare la bellezza del risultato finale. E non c’è dubbio: sono tutti e due dei film esteticamente disarmanti, probabilmente tra i più belli che vedremo quest’anno. Ma in entrambi i casi è anche il ritratto di un periodo che elevava lo stile e il galateo a valore etico a incidere sulla bellezza del contenitore. Valore etico, ma anche maschera.
Cominciamo con Carol. Ambientato nella New York dei primi anni cinquanta, il film di Haynes è basato su Carol (Bompiani 2012), un romanzo breve di Patricia Highsmith su una storia d’amore lesbica. Highsmith era bisessuale, ma dato il clima di ostilità in materia di diversità negli Stati Uniti del 1952, perfino tra le classi “liberali”, decise di pubblicarlo con lo pseudonimo di Claire Morgan. Anche perché la storia ha un finale aperto, che non punisce il rapporto fra le due donne ma lascia la speranza di una soluzione felice – cosa quasi impensabile all’epoca.
Cate Blanchett è una delle poche vere dive moderne. Non nel senso di un’attrice che si comporta da diva (di quelle ce ne sono a bizzeffe). Per “diva” intendo un’attrice che emana un’aura magica, una bellezza magnetica che illumina lo schermo ma allo stesso tempo nasconde qualcosa di segreto, non si apre totalmente. Greta Garbo, Ingrid Bergman, Monica Vitti avevano tutte questa qualità.
In Carol, la bellezza e la riserva misteriosa di Blanchett sono messe al servizio di una storia su un’epoca repressa nella quale il culto della capigliatura perfetta, il cappello da sera e quello da giorno, il rito del martini, l’iconografia della famiglia borghese sorridente, le automobili ciuccia-benzina con le curve quasi femminili, libere come le donne di percorrere strade costruite e mappate dagli uomini, sono il coperchio di una pentola a pressione.
Quello che bolle dentro viene fuori solo tra le mura domestiche, o viene trattato da psicoanalisti-poliziotti, come quello che Carol (il personaggio di Blanchett) è costretta a visitare e se vuole continuare a vedere sua figlia, per curare la sua “malattia”, quella di desiderare le donne.
Questo è un film che gronda bellezza, grazie ai costumi di Sandy Powell, la scenografia di Judy Becker, la fotografia di Ed Lachman, elegante ma amaro come un whisky sour: ma è una bellezza che è tutta una messa in scena.
Il rovescio della medaglia in questo mondo di simboli che impongono ordine e consenso è l’altro mondo di simboli che i “diversi” usano per comunicare tra loro. Quando Carol lascia un paio di guanti sul banco del grande magazzino dove lavora la giovane commessa Therese, interpretata da Rooney Mara, è un gesto apparentemente casuale, ma pieno di significati nascosti. C’è stata una scintilla tra le due donne e adesso quei guanti eleganti di pelle stanno là, davanti alla commessa curiosa, attratta da Carol ma anche un po’ impaurita, a parlare di mani che toccano, di mani che aiutano, di intimità, di contenitori vuoti (di emozioni, di affetti) che hanno un senso solo se riempiti.
In Nie Yinniang sono due mondi iper-controllati e regolati da norme estetiche, gerarchie e codici d’onore a venire in contatto. Il primo è quello della corte cinese verso la fine della dinastia Tang, nel nono secolo dopo Cristo. Anzi, le corti: perché questo era un tempo in cui, soprattutto nel remoto ovest e nord dell’impero, alcuni dei governatori militari conosciuti come jeidushi si erano ribellati al potere centrale per fondare di micro-regni (quello nel film di Hou si chiama Weibo, come il famoso sito cinese di microblogging). L’altro mondo chiuso e regolato è quello del wushu, le arti marziali cinesi.
È interessante che pur affondando le sue radici in pratiche buddiste – per esempio la famosa scuola dei monaci Shaolin – il wushu è in parte moderno, modellato dal wuxia – il filone letterario e cinematografico che ha tradotto le varie discipline del kung fu in una forma di intrattenimento popolare. Il genere moderno del kung fu cinema, rappresentato da film che vanno da quelli un po’ pulp di Bruce Lee a operazione artistiche come La tigre e il dragone, ha delle convenzioni molto precise, una delle quali prevede che l’eroe dev’essere una specie di lupo solitario, spesso di una classe inferiore a quella delle sue vittime, che viene mandato per riparare i torti e riportare giustizia.
Hou fa qualcosa di diverso. In primo luogo l’eroina e adepto esperto di wushu Nie Yinniang (interpretata da Shu Qi) è una ragazza di nobili natali, figlia di un generale. Secondo, la maestra-monaca che la manda a uccidere il governatore della provincia ribelle di Weibo – un cugino di Nie Yinniang, a cui era promessa da bambina – non è il solito saggio buddista, ma una donna rancorosa e manipolatrice.
Raccontato con una serie di sequenze lunghe, dei quadri di una bellezza esasperata, Nie Yinniang è un capolavoro di cinematografia che deve qualcosa alle formalità dell’opera cinese. Ma è anche un film che sovverte quello che ci si aspetta dal genere. Certo, ci sono delle scene stupende di combattimenti, ma sono quasi sempre irrisolte, non portano a un esito trionfale.
Se ho interpretato bene un film ermetico e di non facile lettura, soprattutto per uno spettatore occidentale, è proprio la sovversione del genere a costituire l’originale messaggio di un racconto che ci insegna come in tempi di alleanze mutevoli e zone d’ombra, di cattivi buoni e buoni cattivi, il semplicismo rassicurante dell’eroe aggiusta-torti non regga.
Più che un film di azione, Nie Yinniang è un balletto complicato, una danza circospetta tra due forme di consenso, quello politico della corte e quello etico del giustiziere wushu.