La Berlinale si apre con un Django, gadjo e adagio
Puntualmente, da qualche anno a questa parte, gli angeli addetti al cielo sopra Berlino decretano tempo gelido per tutta la durata del Festival del cinema, con miglioramento il giorno della partenza. Allora c’è da rallegrarsi che il termometro segnasse solo meno due fuori del Cinemaxx di Potsdamer Platz dove è stato proiettato per la stampa Django, il film di apertura.
Non si tratta, purtroppo, del Django western di Sergio Corbucci, ripreso da Quentin Tarantino (fra poco uscirà anche una serie televisiva in lingua inglese, co-prodotta dalla Cattleya). Il Django in questione è il chitarrista jazz Reinhardt, esponente più famoso dello stile vivace noto come Gypsy swing. Roba da riscaldare le anime infreddolite insomma, l’approdo dell’Hot club de Paris al Cold festival di Berlino.
Invece no. Nel Django di Corbucci, il personaggio principale, interpretato da Franco Nero, si trascinava dietro una cassa da morto. Il film di Étienne Comar, invece, si tira appresso una zavorra di cliché. È “basato su una storia vera”, come si dice, ma l’ossatura di questa storia è fragile. Si sa che nel 1943 Reinhardt, all’apice del suo successo, ha cercato di fuggire in Svizzera, dove è stato respinto dalle guardie di frontiera e rispedito a Parigi. Ma si sa anche che è sopravvissuto senza troppi problemi, continuando a suonare (anche per ufficiali tedeschi) e a registrare.
Bisognava comunque costruire un dramma, dunque il film propone un Django geniale ma tutto istinto, un grande bambino che comincia a intuire che davanti alla violenza e ai soprusi bisogna prendere una posizione. Immagina un riallacciamento di Django con le sue radici fra il popolo sinti proprio nel momento in cui la persecuzione nazista dei rom raggiunge l’apice. Inventa un’amante bionda di quelle tragiche, sospesa tra nazisti e résistance.
Fake news e musica vera
Fa molta leva sul jazz come elemento “impuro” e “decadente”, spacciando per vera una presunta lista di “regole per le bande jazz” emanata dal terzo reich che stabilisce, per esempio, la percentuale di contrattempo consentito in un brano (il 20 per cento) o che il contrabbasso va suonato solo con l’arco. Sono invenzioni satiriche dello scrittore ceco Josef Škvorecký, in un racconto del 1966. Ma si sa, le fake news vanno di moda.
Almeno la musica di Reinhardt nel film è quella vera: vivace, accesa, esprime la capacità di resistenza dello spirito umano attraverso le corde di una chitarra acustica. Invece di tirarla per le lunghe, potevo riassumere tutto con il commento di un’amica: “È un film con uno stile al polo opposto della musica che lo ispira”.
Se c’era un film che si muoveva al passo con la musica che lo ispirava, era Trainspotting di Danny Boyle. Vent’anni dopo, è in uscita il sequel: T2 Trainspotting, proiettato per la stampa ieri sera. Ho tanto da dire, e il prossimo film in concorso (La cena di Oren Moverman, con Richard Gere e Laura Linney) sta per cominciare. Ma prometto di dedicare un post a parte nei prossimi giorni ai quattro ragazzi (invecchiati) di Edimburgo.
Vi lascio intanto con una frase di Diego Luna, che fa parte della giuria che assegnerà l’Orso d’oro al miglior film di questa 67ª Berlinale. Davanti all’inevitabile domanda sul nuovo presidente degli Stati Uniti, l’attore messicano ha risposto con una battuta elegante: “Sono qui a Berlino per capire come si buttano giù i muri”. Al di là di film buoni o meno buoni, lo scopo di un festival del cinema internazionale è anche questo.