Tre delle quattro squadre arrivate al livello più alto dei Mondiali 2018 rappresentano paesi europei occidentali alle prese con questioni d’immigrazione e d’integrazione. Ma la quarta e più sorprendente è formata da giocatori provenienti da un piccolo paese. Il successo della Croazia ha un’origine diversa da quello dei suoi rivali. In Croazia, infatti, il calcio è più di un gioco: ha alimentato una guerra, la costruzione dello stato che ne è seguita e le delusioni successive che, paradossalmente, potrebbero aver portato agli straordinari risultati della nazionale.
Per essere un paese di 4,2 milioni di abitanti, la Croazia ha uno straordinario successo sportivo. Oltre al calcio, possiede squadre di primo livello di pallamano, pallanuoto e pallacanestro, e i tennisti croati fanno parte dell’élite globale. In parte la cosa dev’essere legata alla genetica: i croati (come i loro vicini di Serbia e Bosnia) sono tra le persone più alte al mondo, e molti di loro sono naturalmente atletici. Esistono migliaia di club sportivi, molti dei quali sono eredità dei competitivi e fruttuosi programmi sportivi dei tempi dell’ex Jugoslavia (anche se alcuni dei suoi abitanti lamentano il fatto che tutto questo stia scomparendo).
Il calcio, tuttavia, è un caso a sé. I disordini scoppiati nel 1990 allo stadio Maksimir di Zagabria causarono l’interruzione di una partita tra la locale Dinamo e la Stella Rossa di Belgrado e segnarono, per molti croati, l’inizio di una guerra che portò alla secessione del loro paese.
I tifosi serbi furono aizzati da Željko Ražnatović, meglio noto come Arkan, futuro criminale di guerra. La polizia, considerata uno strumento dello stato jugoslavo dominato dai serbi, intervenne troppo tardi, occupandosi solo dei tifosi più violenti della Dinamo, i “ragazzacci blu” come si definiscono loro stessi. Un giocatore della Dinamo, Zvonimir Boban, partecipò agli scontri con l’aiuto di un tifoso. Il suo gesto diventò un simbolo della resistenza dei croati.
Durante un’altra partita di calcio, tra Hajduk Spalato e Partizan Belgrado, nel settembre 1990, gli ultrà della prima, noti come Torcida, bruciarono la bandiera jugoslava urlando “Croazia, stato indipendente”.
Nell’ottobre 1990 una partita tra una selezione di calciatori croati e la nazionale statunitense fu considerata come una grande vittoria diplomatica dei secessionisti
“Se i disordini del Maksimir sono considerati come ‘il giorno che diede inizio alla guerra’, questa partita è stata ribattezzata il ‘giorno nel quale la Jugoslavia smise di esistere’ (almeno sul piano sportivo), con il rogo simbolico del più importante simbolo nazionale che sanciva una totale assenza di legittimità dello stato”, ha scritto Dario Brentin dell’università di Graz, in Austria, che ha studiato i legami tra il calcio e la politica nei Balcani.
Franjo Tudjman, il leader nazionalista a capo del movimento indipendentista, ha usato il radicalismo delle organizzazioni di ultrà calcistici per veicolare il suo messaggio, e il calcio stesso per dare legittimità a una Croazia sempre più indipendente. Nell’ottobre 1990 una partita tra una selezione di calciatori croati e la nazionale statunitense fu considerata come una grande vittoria diplomatica dei secessionisti.
Alcuni atleti, compresi alcuni calciatori, continuarono ad agire come ambasciatori informali di Tudjman nel corso della guerra scoppiata di lì a poco. E dopo averla vinta (gli ultrà nazionalisti erano stati, naturalmente, tra i primi volontari), il presidente Tudjman, il quale aveva proclamato che “dopo la guerra, lo sport è la prima cosa che permette di distinguere le nazioni”, continuò ad attribuire grande importanza al calcio.
Nel 1998, quando la Croazia finì terza ai Mondiali di Francia, in maniera inaspettata per tutti tranne che per i suoi sfegatati tifosi, Boban, il capitano della squadra ed eroe nazionale, lodò Tudjman come il “padre di tutte le cose che noi croati amiamo, e padre anche della nostra squadra nazionale”. Tudjman centralizzò la gestione del calcio, talvolta addirittura interferendo personalmente nelle decisioni dell’allenatore. Per lui il calcio era un’arma e uno strumento per costruire un’identità nazionale rivolta al consumo domestico e a un mondo non particolarmente interessato a distinguere tra gli stati “ex jugoslavi”.
Tudjman è morto nel 1999, ma il suo progetto di costruzione statale ha poi avuto un successo tale da permettere alla Croazia di entrare nell’Unione europea (nel 2013). Eppure il paese era e rimane vittima di una corruzione postcomunista che, negli ultimi anni, ha dominato la storia del calcio croato. All’inizio di giugno Zdravko Mamić, ex direttore esecutivo della Dinamo Zagabria e capo informale del calcio croato, è stato condannato a sei anni e mezzo di prigione per aver dirottato circa 18 milioni di dollari dalle spese di trasferimento di alcuni giocatori. La Dinamo ha ceduto i suoi principali giocatori, tra cui Luka Modrić, la stella della nazionale attuale, tramite un’agenzia guidata da Mamić e da suo fratello.
Mamić si è rifugiato in Bosnia Erzegovina, paese che non possiede un trattato di estradizione con la Croazia. Modrić è accusato di aver dichiarato il falso durante il processo a Mamić, che avrebbe potuto beneficiare della testimonianza del calciatore durante l’udienza. Un’altra stella croata, Andrej Kramarić, si è rifiutato di firmare un contratto come quello di Modrić, che avrebbe permesso all’agenzia di Mamić di trattenere una parte dei soldi del trasferimento.
I tifosi, che negli ultimi anni hanno dato battaglia per porre fine alla corruzione del calcio croato e avere maggiore influenza sulla gestione dei club, sono di nuovo in prima linea per una battaglia politica, stavolta contro il capitalismo clientelare. Per loro Kramarić è un eroe e Modrić un traditore.
Indirettamente la corruzione del calcio croato potrebbe aver contribuito alla forza dell’attuale squadra nazionale. Quasi tutti i suoi giocatori militano in club europei d’élite. Era nell’interesse dei proprietari della squadra croata venderli al miglior prezzo invece che trattenerli, e i giocatori hanno finito per fare importanti esperienze nelle principali squadre europee. Oggi sono professionisti con fiducia nei loro mezzi e privi di complessi d’inferiorità legati alle dimensioni del loro paese.
Eredità sportiva finita
Non è chiaro se la Croazia potrà restare così forte quando si ritirerà questa generazione di stelle. L’economia del paese soffre a causa di anni di cattiva gestione. Con una disoccupazione giovanile al 33 per cento e un governo pesantemente indebitato e troppo impegnato a occuparsi di altri settori economici chiave, il paese farà fatica a mantenere il sistema di formazione ereditato dall’epoca socialista. E anche se i tifosi di calcio rimangono una forza politica, con tutta la loro carica nazionalistica e il loro pathos anticapitalista, il fervore degli anni novanta non influenza più il paesaggio politico.
Eppure oggi questo fervore sembra essere parzialmente di ritorno, mentre il paese celebra le vittorie della sua nazionale. Potrebbe essere l’ultima guerra vittoriosa per un po’ di tempo, per la nazionale, ma la memoria dell’epoca in cui il calcio era più di un gioco è ancora viva. Per questo la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović è l’unica in questo ruolo a indossare i colori nazionali ai Mondiali e a dare davvero l’idea di sostenere la squadra, e non solo di svolgere una funzione diplomatica. L’eredità dell’epoca di Tudjman, ovvero la consapevolezza che a volte le prestazioni di una squadra sportiva nazionale possano avere un valore esistenziale per una nazione, non è del tutto scomparsa.
Il successo della Croazia è il prodotto sia di carriere professionistiche forgiate nei campionati d’Inghilterra, Germania, Francia, Italia e Spagna sia dello spirito combattivo degli anni novanta. Si tratta di una combinazione di cui ha fatto le spese l’Inghilterra e che, nella finale di domenica, potrebbe essere temibile anche per una nazionale francese apparentemente imbattibile.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Bloomberg.
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