Il 4 giugno non ha mai avuto un significato speciale per i cinesi. Almeno fino a vent’anni fa, quando alle prime ore di quel giorno del 1989 le proteste studentesche furono represse brutalmente dall’esercito in piazza Tiananmen, a Pechino. Da allora quella data è diventata per le autorità cinesi il simbolo della resistenza. Per la gente comune rappresenta un momento di democrazia ma anche di violenta repressione.

La commemorazione del ventesimo anniversario è stata paradossale e le misure adottate dallo stato molto rigide: collegandosi a internet dalla Cina era impossibile trovare dei riferimenti agli eventi del 1989. Per altri versi, però, il silenzio imposto in questi anni comincia a incrinarsi. Alcuni intellettuali hanno perfino osato organizzare un seminario sul ventennale sostenendo che “chi continua a tacere, diventerà complice delle autorità”. Ma la cosa che ha suscitato più scalpore è stata la pubblicazione postuma (in cinese e in inglese) delle memorie dell’ex segretario generale del Partito comunista cinese (Pcc) Zhao Ziyang, il riformista che difese gli studenti e fu condannato agli arresti domiciliari a vita. La versione elettronica del libro ha cominciato subito a circolare tra gli intellettuali di Pechino.

Memoria negata

Da vent’anni, il governo cinese vieta ai mezzi d’informazione di parlare dei fatti del 1989, e quindi i più giovani non sanno neanche chi fossero Zhao Ziyang e Hu Yaobang, l’ex dirigente riformista del partito la cui morte, il 15 aprile del 1989, innescò le prime proteste studentesche. Invece le autorità non dimenticano: sono le élite politiche, i “vincitori” del braccio di ferro del 1989, ad avere ancora i nervi scoperti.

Spetta quindi agli sconfitti – gli ex leader studenteschi, i riformatori del partito, gli intellettuali progressisti e gli attivisti per la democrazia in esilio – il compito di analizzare la storia delle proteste popolari di quelle settimane indimenticabili. Perché il movimento fallì? Perché gli studenti e i riformatori del partito non riuscirono a comunicare? Sarebbe stato possibile superare l’impasse e fare in modo che le cose andassero diversamente? Il governo e il popolo cinese possono ancora riconciliarsi? Questi interrogativi lasciano intendere che gli “sconfitti” hanno ormai superato la fase della rabbia e stanno affrontando la questione in modo razionale. Vogliono capire meglio quello che è successo e imparare da quel fallimento.

Il dibattito continua al di fuori dei circoli di potere. La prima conclusione che si può trarre è che la tragedia del 4 giugno 1989 era inevitabile. La prima generazione di leader del Pcc era al potere da moltissimo tempo (in alcuni casi da quasi cinquant’anni). E tutti quelli che ne facevano parte erano accomunati dall’abitudine alla violenza. Nella loro esperienza politica – dalla guerra con i nazionalisti alle lotte interne del partito – non avevano mai preso in considerazione i compromessi e le mediazioni.

Le differenze erano sempre inconciliabili, gli scontri sempre all’ultimo sangue. Quella cultura aveva contagiato anche gli avversari del Partito comunista, compresi alcuni degli studenti che manifestavano per la democrazia a piazza Tiananmen: per loro il compromesso era inconcepibile e il sacrificio per la giustizia era glorioso.

Hu Yaobang e Zhao Ziyang sono stati due figure emblematiche della seconda generazione di leader del partito. Avevano capito che bisognava porre dei limiti al suo potere, per esempio sostenevano che il Pcc non doveva più “approvare” le opere d’arte.

Sapevano anche che i diritti individuali dovevano essere garantiti dalla legge. A metà degli anni ottanta, in diverse occasioni, sia Hu sia Zhao avevano dichiarato che il partito doveva imparare a governare anche se c’erano manifestazioni e “disordini di piccola o media entità”. Questa accettazione delle proteste popolari fu una delle principali novità introdotte dalla seconda generazione, ma purtroppo non riuscì mai ad affermarsi davvero.

Il popolo pagò le proteste con il sangue, ma a subire i danni maggiori furono il partito e l’esercito: non potevano più sostenere di essere “il governo del popolo” o “l’esercito del popolo”. Nessun governo può massacrare i suoi cittadini e sfuggire al disprezzo del mondo democratico, e le atrocità commesse in quel periodo, nonostante i tentativi di cancellarne il ricordo, non saranno mai dimenticate. Prima o poi, per il partito e per i leader cinesi verrà il momento della resa dei conti.

Una delle peggiori eredità lasciate dal 4 giugno 1989 è l’uso della violenza da parte dei governi locali per sedare le rivolte. Ci sono state tante altre Tiananmen, grandi e piccole, nel corso degli anni.

Nel 1989 l’intolleranza del partito aveva contagiato gli studenti, e oggi la violenza ufficiale delle autorità scatena reazioni simili da parte della popolazione.

La tendenza a rispondere alla violenza con la violenza è sempre più diffusa tra i cinesi. Tiananmen proietta ancora la sua lunga ombra su tutto il paese.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 800, 19 giugno 2009*

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