Dal 1979 a oggi la Cina si è sviluppata a una velocità folle. In questi trent’anni l’aumento delle entrate dello stato ha superato di gran lunga quello del reddito dei cittadini. Le riforme politiche non sono mai davvero decollate e il rigido sistema politico cinese non riesce a gestire una serie di trasformazioni sociali sempre più complicate.

I movimenti di protesta del 1989 furono un’esperienza nuova per le autorità di Pechino. Non sapendo come risolvere la situazione, alla fine ricorsero alla violenza. Da allora i leader cinesi hanno un’idea fissa: mantenere la stabilità. Deng Xiaoping ribadiva spesso che “la stabilità è la prima cosa” e che “senza stabilità non si può fare nulla”. Quest’idea è ormai diventata uno dei princìpi che regolano il governo del paese a tutti i livelli.

Essere preparati all’uso della violenza fa parte sempre più esplicitamente dei meccanismi di sicurezza dello stato. La reazione alle manifestazioni di piazza Tiananmen del 1989 ne è stato l’esempio più evidente, ma da allora questa esigenza ha assunto forme meno drammatiche, come per esempio l’enorme sviluppo dei servizi di sicurezza e del loro equipaggiamento. In diverse città i “festeggiamenti” per il nuovo anno ormai consistono in una parata di veicoli corazzati della polizia e di altre meraviglie tecnologiche per mantenere l’ordine pubblico.

Quest’esibizione di forza rituale diventa reale ogni volta che, a Pechino o altrove, vengono mandate schiere di agenti antisommossa a vigilare sulla demolizione delle case. Quando le amministrazioni locali si trovano di fronte a uno delle migliaia di “incidenti di massa” che si verificano ogni anno, la loro prima reazione è mandare l’esercito. E spesso questo scatena la resistenza (a volte violenta) dei cittadini alla brutalità delle squadre antisommossa.

La marea di persone che arrivano a Pechino da ogni angolo del paese per denunciare funzionari corrotti e ingiustizie è una delle forme di “instabilità” più preoccupanti per le amministrazioni locali. La maggioranza di queste persone si rivolge al governo centrale come ultima speranza, dopo aver tentato tutte le strade a livello locale. Ma l’agenzia statale che si occupa delle “lettere e telefonate” non ha il potere di risolvere questi problemi. Al massimo può inviare messaggi di rimprovero o mandare un’ispezione per spaventare i funzionari locali.

L’effetto controproducente di queste iniziative è incoraggiare le autorità locali a impedire che i cittadini presentino i loro esposti. Nell’ottobre del 2007 la provincia di Hebei ha spedito cinquemila funzionari “anti-esposto” a Pechino. In complesso, le amministrazioni provinciali hanno mandato centomila agenti nella capitale. Un funzionario dello Shandong mi ha spiegato come funziona: “Quando le autorità vogliono intercettare un querelante, mandano subito due o tre persone a cercarlo. E gli pagano tutto: i pasti, le spese, anche la benzina”. Ma costringendo le persone a tornare a casa i problemi non si risolvono. Si buttano i soldi sperando che il problema si risolva da solo, si “spende per la stabilità”.

La politica di andare a riprendere i querelanti è parte di una campagna più ampia per la sicurezza pubblica che è costata solo alla provincia di Guangzhou 4,4 miliardi di renminbi nel 2007, mentre per i servizi sociali e la creazione di posti di lavoro sono stati investiti tre miliardi e mezzo di renminbi.

Già da tempo il terrore dell’instabilità crea distorsioni a ogni livello dell’amministrazione cinese. La differenza tra la Cina e gli altri paesi è questa: nei paesi normali il governo deve tener conto di una serie di interessi contrastanti. Per poter sopravvivere, deve garantire che il sistema sia in grado di dirimere qualsiasi conflitto tra gruppi di interesse diversi. Quindi l’esistenza di un solido quadro giuridico assicura alla popolazione che in una situazione difficile riuscirà a far sentire le sue ragioni e ottenere giustizia.

In Cina invece le istituzioni continuano ad andare esattamente nella direzione opposta. Se in una zona si ripetono problemi dello stesso tipo, il governo ordina ai tribunali distrettuali di smettere di occuparsene. Quindi le persone sono costrette a farsi giustizia da sole al di fuori del sistema. L’imposizione della stabilità con la violenza e il denaro crea un circolo vizioso, ben descritto in un rapporto dell’università Tsinghua: “La gente finisce per farsi idee sbagliate. Per risolvere un problema devi sollevare un polverone in grado di ‘mettere in pericolo la stabilità’, se non riesci a farlo, dimenticati di trovare una soluzione ai tuoi problemi”. Quindi sia i gruppi sia i singoli non hanno altra scelta se non ricorrere a mezzi illegali per dare sfogo alle loro frustrazioni.

Traducono la politica ufficiale di “pagare per avere la stabilità” in un calcolo preciso: “Con una sommossa il problema si risolve, con un po’ di scompiglio si risolve a metà, se stai zitto non si risolverà mai”. Per mantenere la stabilità Pechino sta spendendo quasi quanto spende per mantenere l’esercito. Il risultato è un buco nero. Ma il governo non sta solo buttando via soldi, sta intaccando anche il suo capitale morale. La politica cinese è ormai in un vicolo cieco.

*Traduzione di Bruna Tortorella.

Internazionale, numero 863, 10 settembre 2010*

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