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Il Libano unito scende in piazza contro il governo

Una manifestazione contro il governo a Sidone, in Libano, il 21 ottobre 2019. (Mahmoud Zayyat, Afp)

Dal 17 ottobre, i cittadini libanesi di ogni estrazione sociale sono scesi in piazza con proteste senza precedenti che superano le barriere confessionali, di classe e regionali.

Ciò che unisce i manifestanti è la richiesta di dimissioni del governo, nato nel gennaio di quest’anno. Negli ultimi dieci mesi non è riuscito a salvare il Libano da una crisi finanziaria sempre più grave causata principalmente dalla cattiva gestione e dalla corruzione del governo precedente.

Già al secondo giorno di proteste, i manifestanti hanno cominciato a caratterizzare le loro azioni come una rivoluzione. Anche se forse le proteste non si tradurranno in una rivoluzione politica, ne rivelano una sociale.

Nel 2005, il Libano aveva vissuto la cosiddetta rivoluzione dei cedri, quando le persone avevano manifestato in gran numero contro l’occupazione militare siriana del loro paese. Ma allora le proteste non chiedevano un cambiamento nel sistema politico del paese, tuttora dominato dai leader politici delle varie comunità confessionali libanesi.

Le proteste del 2005 furono guidate dal partito politico del defunto primo ministro Rafik Hariri, padre dell’attuale premier Saad Hariri, e dai suoi alleati, che si opponevano al regime siriano. Questo aveva portato a delle contro-proteste orchestrate dal movimento sciita Hezbollah, filo siriano, e dai suoi alleati.

In quanto tali, i partiti politici erano stati i principali fautori delle manifestazioni del 2005. Anche se ciascuno dei campi politici rivali aveva sostenitori appartenenti a diverse confessioni, la base di Hariri era principalmente musulmana sunnita mentre quella di Hezbollah, guidato da Hassan Nasrallah, era prevalentemente musulmana sciita.

La seconda ondata
Nel 2015, mentre nelle strade di tutto il paese si accumulava la spazzatura, i manifestanti sono scesi in piazza nel centro di Beirut per protestare contro la cattiva gestione da parte del governo della raccolta e del trattamento dei rifiuti. Questa volta provenivano da tutte le confessioni del paese e alcuni manifestanti hanno perfino cominciare a mettere in discussione i leader politici della propria comunità. Anche se questi dubbi sono affiorati solo nel campo anti Hezbollah, mentre la maggior parte della comunità sciita non l’ha criticato pubblicamente.

Nonostante alcuni manifestanti abbiano cercato di intensificare le pressioni rispetto alle proteste iniziali, non sono riusciti a far cadere il governo. Durante quelle manifestazioni, i partiti politici rivali hanno cercato di screditarsi l’un l’altro. Ma di fronte alla minaccia l’élite politica del Libano si è saldata ed è ricorsa alla strategia divide et impera, per esempio facendo circolare la voce secondo cui alcuni leader della società civile e del movimento di protesta erano pagati da agenti stranieri, per far disintegrare il movimento.

Tuttavia, le proteste del 2015 hanno piantato il seme dell’azione pubblica organizzata, che da allora è cresciuta lentamente ma costantemente – prima attraverso la contestazione delle elezioni municipali, poi mettendo in campo dei candidati contro i partiti politici tradizionali alle elezioni parlamentari: da tale contesto di impegno civico, tranquillo ma attivo, sono nati alcuni dei gruppi delle proteste attuali, come Beirut Madinati.

I manifestanti hanno giurato di rimanere in strada fino alla caduta del governo

Ci sono alcuni elementi chiave per cui queste ultime proteste differiscono da quelle del 2005 e del 2015. Come nel 2015, ma a differenza del 2005, fanno parte di un autentico movimento di base che non è diretto da nessun partito politico. Sono trasversali in un senso più ampio di quelle del 2015. Si stanno svolgendo in tutto il Libano, e non solo a Beirut. E chiedono fin dall’inizio la caduta del governo, criticando i leader politici di ogni confessione.

Nel 2005 il numero di persone per strada era molto più alto, ma le attuali proteste sono più grandi di quelle del 2015. Si stanno anche svolgendo in regioni in cui un’azione pubblica del genere era considerata impossibile, in particolare nel sud del Libano dove addirittura la popolazione sciita ha attaccato pubblicamente i leader sciiti tradizionali, incluso Nasrallah.

La risposta del governo alle attuali proteste è stata il suo solito approccio del bastone e la carota: tornare indietro sulle proposte per aumentare le tasse e reprimere le proteste con la violenza. Nessuno dei due metodi ha dissuaso i manifestanti, che hanno giurato di rimanere in strada fino alla caduta del governo. Per la prima volta le persone chiedono che i leader delle loro comunità, e del governo in generale, siano ritenuti responsabili; inoltre i manifestanti delle roccaforti sunnite come Tripoli stanno esprimendo solidarietà con i manifestanti delle roccaforti sciite come Tiro.

I gruppi della società civile coinvolti nelle proteste stanno inoltre elaborando tattiche per contrastare la violenza e facilitare la mobilitazione (un gruppo ha offerto corse gratuite in moto verso i luoghi delle manifestazioni) e proponendo una tabella di marcia per le riforme dello stato libanese.

Per la prima volta le proteste sono una condanna dello status quo politico che, già prima della guerra civile, ha ampiamente riciclato le stesse facce (o i loro parenti e discendenti) in parlamento, nel governo e nelle posizioni chiave del settore civile e militare.

Come il governo libanese e l’élite politica gestiranno questa minaccia esistenziale resta una domanda senza risposta, ma i cambiamenti radicali sul terreno, in termini di movimento di protesta stesso, raccontano una storia importante.

Decenni di corruzione e relazioni clientelari tra i cittadini e i loro leader hanno solo portato a una spirale discendente che rischia di rovinare l’economia del paese e spingere la sua gente verso la soglia di povertà o al di sotto. Le proteste si svolgono solo da alcuni giorni, ma i manifestanti mostrano già una crescente consapevolezza non solo delle tattiche governative in genere utilizzate per cercare di diffondere i movimenti popolari, ma dei loro bisogni come cittadini, indipendentemente dalla classe o dalla setta.

Questa da sola è una rivoluzione in un paese in cui il sistema politico è, per la maggior parte, una versione moderna del feudalesimo. Resta da vedere se ciò porterà a un cambiamento politico radicale nel prossimo futuro, ma rivela che il seme del cambiamento sociale piantato nel 2015 è germogliato.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Al Jazeera.

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