Perché siete così tanti a voler scrivere un romanzo? Alcuni di voi hanno ammesso di essere in cerca di fama e ricchezza. Un numero confortante dice di voler diventare uno scrittore perché ama leggere e vorrebbe regalare a qualcun altro lo stesso piacere.

Sono rimasta colpita dalla franchezza di Anthony Wong: “Mi sono interrogato a lungo e ho capito che diventare sul serio uno scrittore non m’interessa”. Peccato perderla, signor Wong, ma complimenti per l’onestà.

Due motivazioni saltano fuori di continuo: la gioia di creare un mondo di personaggi, e la sfida di modellare un linguaggio che ne offra un ritratto affidabile. Paola scrive che “a tutti prima o poi piacerebbe essere Dio”. Mentre un signore (o una signora) che si firma Cherub sostiene: “Non potrei assolutamente lasciare i miei personaggi a litigare, amarsi e vivere solo nella mia testa. Sarebbe come ignorare i miei figli”. Ann mi ha spiegato di essere affascinata dalle persone: “Posso passare ore intere semplicemente a guardare gli altri. Chi sono? Che fanno, a che pensano? Dove stanno andando in questo momento e nella vita?”.

Ugo vuole scrivere un romanzo “per disegnare nella Storia un’altra storia, dove far correre liberamente me e i miei personaggi”, mentre Sara vorrebbe scrivere un romanzo “perché dal momento che esco di casa, in ogni luogo vedo e sento cose interessanti, che vorrei raccontare a modo mio per renderle ancora più coinvolgenti e indimenticabili”.

Ricordo che anch’io avevo la stessa curiosità quando facevo la pendolare per andare in ufficio. Mi perdevo a fissare le vite che scorrevano oltre i finestrini dell’autobus, a guardare un’anziana che camminava a fatica sotto la pioggia. Sentivo di voler a tutti i costi conoscere la sua storia. Come potevo far rivivere quell’esistenza nelle mie parole?

Essere pieni di curiosità nei confronti degli altri è un presupposto essenziale per scrivere romanzi, nonostante l’opinione diffusa secondo cui lo scrittore è un egocentrico chiuso in se stesso. In realtà la sua chiusura totale arriva solo quando è di fronte alla scrivania; altrimenti, nel resto del tempo, uno scrittore dev’essere patologicamente curioso.

Ogni autore vive in mondi popolati da personaggi che hanno ruoli piccoli o grandi nelle pagine dei suoi romanzi (e allo stesso tempo chi scrive entra nella vita degli altri, e tutti c’incontriamo come in giganteschi schemi di parole crociate). Il fatto è che conosciamo solo alcuni episodi delle vite degli altri e il mestiere dello scrittore è un’ottima scusa per scoprire o immaginare tutto il resto.

“Scrivere è come essere a una festa in maschera e riuscire a vedere gli uomini sotto le maschere”, scrive Atc, mentre Pietro vuole provare “il gusto di creare dei personaggi e vedere come si comportano in situazioni strane e originali”. Pip confessa qualcosa che pochi scrittori famosi sarebbero disposti ad ammettere: “Scrivere romanzi è un passatempo che mi consente di far ordine tra i fatti della mia vita. È quasi come parlare con uno psichiatra senza tirar fuori un soldo”.

Sono pienamente d’accordo (anzi, leverei il quasi). Come Jordi, che scrive: “Vorrei scrivere un romanzo per rendermi conto di ciò che penso”. Nicola spiega: “Non sono io a voler scrivere un romanzo; è il romanzo che pretende di essere scritto. E mi tormenta di continuo, anche quando dormo”.

A chi non ha mai sentito quest’esigenza, sembrerà un’affermazione da fanatici, ma io so benissimo cosa vuol dire. Ci troviamo di fronte alla più urgente delle motivazioni: sentire che non puoi non farlo. Clio parla di “una pulsione non controllabile che ti obbliga a scrivere, perché i personaggi si stanno muovendo e non puoi fare altro che seguirli”. Mentre Paolo sente “le storie bussare contro lo sterno, rimbombano nella cassa toracica e mi rendono impaziente; devo dargli forma e colore, ma non basta una smorfia, non bastano poche righe”.

Detto ciò, è chiaro che molti di voi sono stati al gioco degli esercizi ma in realtà hanno già un’idea precisa del libro a cui vogliono dar forma. Il compito che sto per assegnare è per chi parte da zero, ma mi piacerebbe che anche i più esperti volessero farlo: rimarrete stupiti da quello che verrà fuori.

Vi chiedo di pensare a un episodio della vostra vita che abbia a che fare con un incidente: fatene un resoconto e speditemelo. Limitatevi a raccontare l’accaduto senza abbellimenti o analisi. In certi casi si tratterà di eventi drammatici (un incidente d’auto), in altri semplicemente di un dente da levare o di un vaso rotto. Può trattarsi di un avvenimento che ha lasciato lunghi strascichi o una cosa che non ha avuto altre conseguenze. Non è necessario che scriviate in bello stile; raccontate l’incidente come se parlaste a un amico. La prossima settimana vi spiegherò perché.

Internazionale, numero 631, 2 marzo 2006

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