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L’Italia vieta il glifosato ma il resto d’Europa è meno virtuoso

Un campo costruito dai manifestanti che protestano contro l’azienda Monsanto a Córdoba, in Argentina, il 13 febbraio 2016. (Toby Binder, Anzenberger/Contrasto)

C’è un nuovo atto nell’annosa storia del glifosato, un erbicida tra i più diffusi nel mondo ma già da tempo indicato come probabile cancerogeno. Questo 22 agosto in Italia infatti è entrato in vigore un decreto del ministero della salute che ne limita l’uso e il commercio. È ormai vietato usare glifosato in luoghi pubblici come “parchi, giardini, campi sportivi e zone ricreative, aree gioco per bambini, cortili ed aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie”. È vietato anche impiegarlo in agricoltura nel periodo che precede il raccolto e la trebbiatura (cioè quando finisce per restare quasi tutto su ciò che mangeremo). Il decreto inoltre revoca le nuove autorizzazioni a mettere in vendita prodotti fitosanitari che lo contengono.

L’Italia così è la prima in Europa a riprendere una raccomandazione della Commissione europea. La vicenda del glifosato però è complicata. La Commissione ha deciso alla fine di giugno di prorogare di altri 18 mesi l’autorizzazione all’uso del glifosato, anche se nello stesso tempo ha chiesto agli stati membri di limitarne l’uso nei luoghi pubblici. La decisione è arrivata dopo mesi di riunioni inconcludenti, in cui i 28 paesi dell’Unione europea non sono riusciti a prendere una decisione chiara – o forse hanno “deciso di non decidere”, secondo alcuni commenti.

Di proroga in proroga

In effetti l’autorizzazione europea per il glifosato era scaduta già nel 2012. La Commissione europea aveva chiesto di rinnovarla per 15 anni, ma non aveva avuto il consenso dei 28. Così da quattro anni si procede di proroga in proroga: quella appena approvata è la terza e permetterà di arrivare alla fine del 2017, cioè quando si attende che l’Echa (Agenzia europea per la chimica) completi il suo studio sull’impatto del glifosato sulla salute umana e sull’ambiente.

I dubbi sul glifosato però sono già numerosi e autorevoli. Nel marzo 2015 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Airc), istituzione scientifica dell’Organizzazione mondiale della sanità considerata la massima autorità in materia di tumori, aveva dichiarato il glifosato “potenzialmente carcinogeno” per gli umani.

Dire glifosato significa dire Monsanto, che dagli anni settanta lo vende come RoundUp

La cosa aveva fatto scalpore: da un lato perché questa sostanza è presente in più di 750 prodotti per l’agricoltura e il giardinaggio domestico (il commercio mondiale di erbicidi a base di glifosato ammontava a circa sei miliardi di dollari nel 2015; anche se l’Unione europea rappresenta solo il 15 per cento del totale, resta un mercato considerevole). Ma soprattutto perché dire glifosato significa dire Monsanto, il colosso mondiale della chimica e agrochimica che negli anni settanta lo ha brevettato e messo in commercio con il nome RoundUp e continua a dominare il mercato.

La storia del glifosato, e dell’azienda che ha legato la sua fortuna a questa sostanza, ha qualcosa di sconcertante. Si tratta di una molecola sintetizzata negli anni cinquanta in Svizzera: il nome proprio è N-(fosfonometil)glicina, o C3H8NO5P. La nuova sostanza, però, ebbe fortuna solo quando il brevetto svizzero fu acquistato da un’azienda chimica statunitense.

La Monsanto, fondata nel 1901 a East St. Louis (in Illinois), si era già affermata con almeno due colpi di grande successo. Il primo risale al 1929 quando ha lanciato un nuovo tipo di composto, i policlorobifenili (Pcb), usati come liquidi refrigeranti nei trasformatori, poi come lubrificanti, liquidi idraulici, rivestimenti stagni (già negli anni trenta erano emerse prove della tossicità dei Pcb, provata poi tra gli anni sessanta e settanta: sono cancerogeni, responsabili di diversi disordini immunitari e dell’apparato riproduttivo, e sono anche molto persistenti, tanto che in molti siti industriali anche in Italia la contaminazione è ancora presente).

La creatrice dell’agente arancio

Il secondo successo di Monsanto è stato l’erbicida conosciuto come 2,4,5-T, sigla che allude ai numeri di atomi di cloro del composto. Fabbricato dagli anni quaranta, era così efficace che durante la guerra in Vietnam l’esercito degli Stati Uniti lo usò per defoliare le foreste tropicali in cui si nascondevano i combattenti vietcong. Insomma: era il famigerato “agente arancio” (agent Orange), che ha distrutto per decenni la vegetazione in Vietnam e ha lasciato una scia di malformazioni e tumori sia tra i vietnamiti sia tra i veterani dell’esercito statunitense. Il suo uso fu sospeso nel 1971, quando cominciarono a essere noti gli effetti di un sottoprodotto che si crea bruciando composti a base di cloro: le diossine. La tossicità della diossina è ormai provata senza dubbio; è cancerogena, provoca danni immunitari e all’apparato riproduttivo.

Ma il vero grande affare dell’azienda di East St. Louis è proprio il glifosato. Messo in commercio nel 1974, il RoundUp Monsanto è diventato in breve l’erbicida più usato negli Stati Uniti e poi nel mondo. Anche in questo caso c’è un corollario militare: per tutti gli anni novanta e nel primo decennio del ventunesimo secolo l’esercito degli Stati Uniti lo ha irrorato su milioni di ettari di piantagioni di coca in Colombia, per “eradicare” la produzione di cocaina.

Altri producono il glifosato, però Monsanto offre il ‘pacchetto’ completo con i semi resistenti all’erbicida

A consolidare il successo ha poi contribuito l’ingegneria genetica. Negli anni ottanta infatti Monsanto ha cominciato a investire in modo massiccio in biotecnologie applicate all’agricoltura, e il suo primo exploit sono state alcune specie resistenti al glifosato: così si può usare l’erbicida senza uccidere anche la pianta utile. Soia, mais e colza “roundup ready” sono sul mercato dal 1996-97. Questo ha permesso a Monsanto di mantenere una posizione dominante nel mercato anche quando nel 2001 il brevetto sul RoundUp è scaduto. Ormai molte altre aziende fabbricano erbicidi con glifosato. La multinazionale statunitense però ha il vantaggio commerciale di vendere il “pacchetto” completo, sementi più erbicida.
Già da tempo circolano studi su possibili disordini provocati dal glifosato (e però ancora nel 2013 negli Stati Uniti l’ente federale per l’ambiente, Environmental protection agency, ha approvato la richiesta della Monsanto di alzare le soglie legalmente tollerabili di residui di glifosato nel cibo).

Nessun principio di precauzione

Lo studio più completo tuttavia è quello dell’Airc, che nella primavera 2015 ha riunito un comitato di esperti di 11 paesi per analizzare la documentazione scientifica disponibile su cinque insetticidi ed erbicidi organofosfati e valutarne la cancerogenicità. Sulla base di questa analisi, due di queste sostanze sono definite “forse cancerogene” (classe 2B) e altre tre “probabilmente cancerogene”, classe 2A: il glifosato è tra queste. La Airc ha esaminato studi sui lavoratori agricoli esposti al glifosato negli Stati Uniti, in Canada e in Svezia, che mostrano un “aumentato rischio di linfoma non-Hodgkin”, un tumore del sistema linfatico. Altri studi hanno mostrato danni al dna e ai cromosomi nei mammiferi. Lo studio è online sulla rivista The Lancet Oncology.

L’industria chimica ha respinto le conclusioni dell’Airc sul glifosato, e questo non stupisce. Lo studio dell’Agenzia sul cancro però è contestato anche da altre voci. Una è l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), che ha risposto nel novembre 2015 con un documento in cui definisce “improbabile” che il glifosato diventi una minaccia per gli umani attraverso il consumo alimentare: ovvero, le tracce dell’erbicida nel cibo non sarebbero un problema. A sua volta lo studio della Efsa è stato criticato come “scarsamente indipendente”, perché basato in parte su studi riservati commissionati dagli stessi produttori di glifosato. La Fao e l’Organizzazione mondiale della sanità in seguito hanno espresso dubbi sulle conclusioni dell’Airc.

Così torniamo all’Unione europea. Togliere l’erbicida dai luoghi pubblici e limitarne la vendita in fondo è solo un primo passo. In attesa di conclusioni accettate almeno da tutti i partner europei, il glifosato resta in circolazione: diciamo che in questo caso non è valso il “principio di precauzione”.

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