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L’anno decisivo per la realtà virtuale

Un visitatore alla Paris game week, il 28 ottobre 2015. (Benoit Tessier, Reuters/Contrasto)

Los Angeles, giugno 2015. Sono seduto su una sedia a rotelle nell’ambulatorio disadorno di un ospedale abbandonato. Sento e intravedo gente nella stanza davanti a me. Un uomo e una donna, probabilmente una coppia, decisamente concitati, parlano di me. “Dobbiamo fidarci di lui”, dice lei. E l’uomo risponde una cosa come: “Fidarci di lui? È completamente pazzo! Ti ha appena dato istruzioni per amputargli una gamba!”.

Sono a una fiera di videogiochi, sto provando un vr, un sistema di realtà virtuale, e sono consapevole di tutto: indosso un caschetto e delle cuffie. Eppure per istinto, per sicurezza, perché non si sa mai, abbasso lo sguardo. Vedo la mia gamba amputata sopra al ginocchio e medicata di recente alla buona. C’è del sangue fresco che sporca le bende. La mia mano si aziona e dà una grattatina rassicurante al ginocchio vero, che si conferma presente al suo posto.

Nel gioco l’uomo arriva alle mie spalle, mi spiega che devo dargli una mano, mi dà un fucile a pompa (che nel mondo reale è di plastica e mi viene passato da due dimostratori dello stand) e mi porta con sé a sparare per cercare di uscire vivi dall’edificio. Lui spinge la sedia a rotelle, gli zombi si avvicinano, io sparo, li colpisco, ricarico, ne arrivano altri. Lui mi grida di tenerli lontani mentre apre una porta o fa altre cose che preferirei non dovesse fare lasciandomi lì fermo e impotente, eppure le fa e io provo la classica sensazione di solitudine e pericolo che fa funzionare i film horror. Solo che qui non devo proiettare, non devo immedesimarmi: sono proprio io che mi giro, vedo uno zombi che striscia, carico, punto e lo colpisco. Dopo qualche minuto, in una di queste manovre i non morti hanno il sopravvento. Si avventano prima sul mio accompagnatore e poi sulle mie carni.

Posato il fucile a pompa, tolti caschetto e cuffie, chiacchiero con Almir Listo degli Starbreeze studios, che mi spiega che l’azienda, dopo il successo del titolo Payday2, ha deciso di acquisire la InfinitEye, promettente ditta francese che produce hardware. InfinitEye ha realizzato StarVR, il visore a quasi 5K di risoluzione e 210 gradi di angolo di visuale che ho indossato per provare questa piccola demo di Overkill’s the walking dead (realizzato in collaborazione con l’autore del fumetto Robert Kirkman) che dovrebbe uscire nel 2016.

L’esperienza è effettivamente notevole, ma per far funzionare una versione non ottimizzata di un livello del gioco, con questa velocità e questa risoluzione, ogni postazione ha bisogno di due computer con grande capacità di calcolo e un costo di alcune migliaia di euro ciascuno. Starbreeze è il primo studio videoludico a puntare autonomamente su un vr realizzato in proprio, da vendere insieme a giochi per usarlo, ma verosimilmente non solo.

Londra, qualche mese dopo. Sony presenta il suo PlayStation VR (già “Morpheus”): specifiche tecniche meno mostruose, prezzo probabilmente contenuto per via dei volumi di vendita e del grande gruppo che lo produce, piattaforma molto diffusa ed economica come la PS4, potenziale di giochi di Sony e di altri editori a portata di Play Station store. Dopo aver sfidato degli altri giornalisti (perdendo miseramente) in una partita a Rigs, sorta di sport robotico concepito per PlayStation VR da Guerrilla, lo studio di Amsterdam famoso per Killzone, provo The London heist.

Un’anteprima di nuovi kit vr a Hollywood, il 24 settembre 2015.

Il gioco è ambientato nel mondo della malavita londinese. Diciamo che se fosse un film ci sarebbe sicuramente Jason Statham come protagonista. Sono seduto in un furgone accanto a un bruto senza collo, lui guida, siamo sull’autostrada fuori Londra all’alba. Veniamo da un colpo andato a segno contro un’altra banda. Il tamarro alla mia destra ridacchia e gongola per quello che abbiamo fatto, quando improvvisamente alcuni uomini dell’altra banda spuntano sull’autostrada su moto e furgoni, pesantemente armati e intenzionati a vendicarsi. Il bestione mi dà una pistola, mi dice di aprire il cassettino del cruscotto e prendere dei caricatori.

Nel mondo reale io ho in mano due PlayStation move con cui manipolo gli oggetti e premo quando serve un grilletto, indosso il caschetto e le cuffie, sono seduto su una poltroncina. Quando inizia la sparatoria, nel giro di pochi istanti sono dentro. Apro la portiera alla mia destra, mi sporgo, giro la testa indietro, miro e sparo, colpendo i motociclisti che ci inseguono. Davanti a noi salta il parabrezza, e sparo direttamente agli obiettivi. Quando l’arma è scarica, prendo i caricatori, li inserisco nel calcio della mitraglietta e ricomincio, il tutto nel giro di pochi secondi. Il senso di immersione è impressionante: desidero che l’esperienza duri per giorni interi.

Perché la realtà virtuale funzioni, è necessario che gli organi di senso siano completamente ingannati

Passato all’ultima postazione, provo un piccolo gioco dimostrativo intitolato Headmaster: per un quarto d’ora, davanti a una porta da calcio, ricevo palloni e devo segnare di testa. Me la cavo anche abbastanza bene. A partire dalla mattina dopo e per quattro giorni, avrò il collo bloccato e dolente. Le prospettive fisiche del vr, quando arriverà, saranno molto buffe.

Manca del tutto, su Playstation vr come su qualsiasi altro sistema provato di recente, quello che fino a un anno fa era un problema diffuso: la chinetosi da vr, il mal di mare provocato dalla sensazione di movimento percepito cui non corrisponde un movimento reale. Perché la realtà virtuale funzioni, è necessario che gli organi di senso siano completamente ingannati. Se qualcosa non torna, anche solo in termini di rapporto tra la vista e l’equilibrio, nel dialogo tra orecchio interno, cervello e retina, si ottiene uno spiacevole effetto di scarso divertimento nella gran parte dei casi, e qualcosa di peggio se si è sensibili a questo tipo di cose.

Va detto che io non sono molto soggetto alla chinetosi reale da barca o da auto, ma è indubbio che i progressi su questo fronte sono assoluti. Non solo i vecchi sistemi vr, ma anche il 3d domestico soffriva di questo problema di fastidio legato al modo in cui la tecnologia usava i limiti del cervello per dare una sensazione di tridimensionalità su un piano bidimensionale. Essendo il 3d andato quasi del tutto in disgrazia nella sua incarnazione domestica, il timore che il vr possa fare la stessa fine c’è. Come per il caso del 3d, però, quello del mal di mare è l’ultimo dei problemi.

Milano, qualche settimana fa. Sono un sub nelle profondità marine, e osservo gli animali grandi e piccoli che mi si muovono davanti, mentre sono appoggiato sul ponte di un relitto. Con le mani allontano branchi di pescetti. Davanti a me si palesa una megattera. Fa un certo effetto quando mi passa davanti: faccio due passi indietro per evitare il codone. Poco dopo invece sono in uno spazio astratto, vuoto, che ricorda la scena delle pillole blu e rossa di Matrix.

Ho in mano una tavolozza nella sinistra, che interagisce con quello che faccio e mi mostra colori, strumenti, retini tra cui scegliere per riempire gli spazi. Scelgo un paio di pennelli e colori, con i quali poi con la destra (impugno dei controller appositi, molto reattivi) nell’aria creo un viso, brutto ma simpatico. Mi viene una specie di demone sorridente. Finito il volto, scelgo dalla tavolozza un altro pennello che dà un effetto fiammeggiante, giro fisicamente intorno alla faccia che ho appena disegnato, le passo accanto e la vedo sottile, e poi da dietro, alle spalle del volto, disegno la testa come fosse una scultura. Torno davanti e ammiro il risultato.

Htc Vive è il sistema vr che Htc ha sviluppato insieme a Steam. Steam è la maggiore piattaforma di vendita di videogiochi per pc (e mac) online. Branca dello studio Valve, noto per Half life e Portal, Steam è quasi monopolista del suo mercato. Il vr di Htc per Steam è decisamente impressionante. In questa fase di sviluppo del prodotto c’è ancora un cavo multiplo un po’ ingombrante che lo collega al pc, ma la naturalezza e il nitore dell’esperienza sono tra i migliori provati finora.

Visitatori provano il nuovo kit vr Oculus al Tokyo game show, il 18 settembre 2014.

Manca ovviamente il vr per eccellenza, quello che ha fatto capire a mercato, investitori e pubblico che questa tecnologia meritava di uscire dai romanzi di William Gibson e di Neal Stephenson, essere dimenticata nelle sue applicazioni goffe del passato, e diventare realtà tangibile per il futuro prossimo: Oculus Rift. Oculus vr è l’azienda fondata in garage da Palmer Luckey e comprata da Facebook per due miliardi di dollari. Il suo prodotto per sviluppatori è già in vendita da tempo, ma il caschetto da vendere ai consumatori è atteso per il 2016. Quando ho provato la penultima versione l’anno scorso, mi sono commosso (letteralmente, occhi lucidi) vedendo il pianeta Terra da una base spaziale distrutta.

Recentemente Luckey, 23 anni, con la sua aria da nerd entusiasta, ha annunciato una nuova applicazione di Oculus Rift: Rock band, il gioco musicale di Harmonix che simula le azioni e la carriera di un complesso, avrà una versione nella quale chi suonerà la chitarra potrà indossare il caschetto vr e abbassare lo sguardo per vedersi le mani che fanno un riff, voltarsi e guardare il resto della sua band, proprio come nel mondo reale. E questo è il brutto.

Giochi in cabina

A quanto pare il punto centrale della questione, quello su cui si giocherà tutta la partita del vr, sarà il linguaggio che l’industria dei videogiochi sarà in grado di sviluppare per questa tecnologia. Come nel caso degli infrarossi e degli accelerometri usati nei controller, che sono diventati una modalità irrinunciabile solo quando Nintendo ci ha saputo costruire intorno la Wii e un intero mondo originale e convincente, allo stesso modo il vr non scoppierà solo se il vr sarà il quadro e non la cornice. Certo che la Wii stessa, per stare nella similitudine, è stata in piccola parte anche una piattaforma di gioco analoga alle altre, capace di adattare e ospitare titoli disponibili anche su Xbox, PlayStation e pc. Ma il senso della tecnologia della Wii era nelle esperienze concepite espressamente per sciabolare racchette immaginarie in salotto, o cose del genere. Chi ha provato sa benissimo di cosa parlo.

Va anche detto che per un certo periodo è sembrato all’industria videoludica che periferiche e piattaforme di interazione fisica e gestuale fossero una strada percorribile e remunerativa. È stato vero per Nintendo nella fase Wii con grande successo, ma ora non lo è più quasi per niente; Sony ha usato telecamera e controller move per alcuni giochi, ma senza mai concentrarci troppi investimenti; Microsoft ha spinto il suo sistema di riconoscimento fisico kinect con grande coraggio, per poi tornare sui suoi passi e di fatto disconoscerlo.

Per ora non abbiamo ancora visto esperienze di gioco che impongano l’acquisto e l’uso di un vr, cioè titoli talmente perfetti e nuovi nel concetto da chiudere la questione. Eppure Shuhei Yoshida, capo degli studi di sviluppo interni di Sony, interpellato sulle potenzialità del vr, qualche tempo fa mi ha detto che al primo Natale utile il sistema avrebbe ospitato senza dubbio il gioco dell’anno. È difficile capire se il 2016 sarà già quello buono.

Creare un titolo nuovo costa molto tempo e molto denaro. Oggi ci sono sempre meno esclusive proprio per permettere ai grandi titoli di avere un pubblico potenziale che comprenda tutti i videogiocatori su ogni computer e ogni console. Legare un titolo indissolubilmente a una tecnologia che costa alcune centinaia di euro, magari specifica per una piattaforma (PlayStation, Steam o altro), significa tagliare fuori enormi fette di pubblico.

Per questo al momento ci sono giochi vr di dimensioni piccole, magari anche impressionanti, ottimi per una presentazione, ma apparentemente un po’ limitati nell’estensione rispetto agli omologhi tradizionali. Perché va detto che intanto i giochi “normali” hanno la stazza di Assassin’s creed syndicate, GTA5, Destiny, Metal gear solid 5, Fallout 4: universi grandi e ricchi che assicurano decine di ore di gioco, cui il pubblico è ormai abituato.

Google cardboard è un visore di cartone a basso prezzo in cui incastonare lo smartphone

Alcuni dei titoli vr che girano in questa fase embrionale sono delle esperienze passive in cui si ammirano le capacità di immersione in un ambiente artificiale offerte da questa tecnologia. E non c’è nulla da dire a riguardo: il vr ormai funziona e funziona bene, i caschetti sono leggeri e comodi anche per chi porta gli occhiali, quasi nessuno prova più quel senso di fastidio o quel mal di mare. Fuori dal contesto videoludico, in ambito di realtà aumentata, di mostre, di architetti che vogliono far fare un giro nella piantina della casa nuova ai clienti, di mille altri usi più specifici nell’applicazione e ristretti nella diffusione, una forma di questa tecnologia sarà disponibile. Quindi è verosimile che la incontreremo nelle nostre vite qua e là.

Esiste già la soluzione autarchica di Google cardboard: un visore di cartone a basso prezzo in cui incastonare lo smartphone opportunamente fornito di app che dividono lo schermo in due e permettono esperienze di realtà aumentata un po’ primordiali ma di sicuro impatto, come le fotografie agibili del New York Times nella sua applicazione NYTVR. Ma i giochi sono un’altra cosa. Al momento è difficile oggi dire quanti di noi avranno presto un caschetto vr a casa e lo useranno con regolarità. Perché per quanto sia un mondo molto affascinante, il vr ha dei difetti intrinsechi.

Per esempio, qualsiasi gioco che preveda personaggi in piedi presenta un problema: si gioca da fermi e tendenzialmente seduti, e se io nel gioco mi sto muovendo, quando abbasso lo sguardo non posso avere le gambe, altrimenti le vedo in movimento quando sento che nel mio corpo fisico sono ferme. Per questo motivo le situazioni più convincenti sembrano essere i giochi in cui si sta in una cabina, in una postazione, su un mezzo, e da lì si agisce pilotandolo.

Le altre controindicazioni del vr sono l’isolamento di chi gioca, che nelle applicazioni viste finora deve stare in una sua bolla sensoriale, scollegato da amici o familiari nella stessa stanza, con effetto escludente. Se invece si gioca in tanti, ne nasce un’esperienza a turni che non è il massimo della vita: i caschetti sono comunque troppo ingombranti e costosi per essere comprati in più di un esemplare, oltre al fatto che il flusso di dati è enorme e non è facile gestire molte persone su una stessa macchina. Certo, nella versione classica da cyberpunk, per cui l’hacker indossa il caschetto, si connette, frequenta una grande società parallela di singoli, ciascuno dalla propria postazione, il sistema può funzionare.

Per questo si crede che questi sistemi avranno indubbiamente una certa diffusione presso i giocatori più appassionati e nerd, già abituati a quel tipo di esperienza privata e profonda, pronti a spendere con entusiasmo per provare una nuova tecnologia e le sue applicazioni più sperimentali. Ma molte delle linee di espansione del pubblico dei giocatori degli ultimi anni, come il gioco collettivo, sono quasi del tutto tagliate fuori dal vr per ragioni di costo e di praticità. Gli sparatutto potrebbero trarre giovamento dalla tecnologia vr, visto che si può considerare in qualche misura un’evoluzione immersiva dell’interazione in prima persona su cui si basano, ma sempre con il problema della complessità di quello che succede, del movimento, della mole di dati da gestire in tempo reale.

Il mercato sta spingendo questa tecnologia come mai prima d’ora, e l’anno decisivo potrebbe già essere il 2016. Fare gli entusiasti e immaginare una parabola lunga e fantascientifica, con una società piena di caschetti connessi di continuo in un numero variabile di universi virtuali, è il solito esercizio di slancio che rischia di scontrarsi con una realtà di pochi nerd intossicati dal vr e un mondo intorno che non trova una ragione per convertirsi.

Il viaggio inesistente dei Google Glass, una nave che non ha abbandonato non dico il porto ma nemmeno il cantiere, insegna che il valore delle azioni e la quantità di chiacchiericcio non hanno a che fare con la vita reale dei prodotti tecnologici. Ci sarà senza dubbio da divertirsi, e a quanto pare nei prossimi due anni il panorama del mondo vr cambierà di continuo.

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