Almeno su un punto l’Europa sembra essersi finalmente svegliata: la disoccupazione giovanile. L’ultimo vertice Ue della settimana scorsa ha messo a disposizione nove miliardi di euro per quei paesi in cui la disoccupazione degli under 25 supera il 25 per cento. E il governo Letta ha varato un programma di pronto intervento per un miliardo di euro, con l’obiettivo di creare 200mila posti di lavoro.
Infatti le cifre sono impietose. In Grecia la disoccupazione giovanile è schizzata al 62,5 percento, in Spagna raggiunge il 56, in Portogallo il 42, in Italia il 40 per cento. E c’è da credere che questa volta le preoccupazioni dei governi europei siano sincere. La mancanza di prospettive, il timore che non ci sia un futuro sono la base ideale per i movimenti di protesta. Su scala mondiale assistiamo già oggi a piazze gremite di giovani arrabbiati e determinati: dal Cairo al Brasile alla Turchia. Finora il contagio in Europa, a parte la fiammata degli indignados spagnoli, non c’è stato, ma niente assicura che non ci sarà.
Ma i politici non hanno solo paura di piazze inferocite. Tra appena un anno sarà rieletto il parlamento europeo e a buon ragione i grandi partiti temono un’ondata di euroscetticismo e una crescente disaffezione dalla politica. “Rischiamo di trovarci con il parlamento europeo più antieuropeo della storia”, è qla frase ricorrente tra i politici di tutto il continente.
E come meravigliarsi, di fronte a una politica che a sua volta per anni ha dimostrato di essersi disaffezionata ai giovani? Rimarrà nella storia la sobria freddezza con cui l’allora presidente del consiglio Mario Monti parlò di chi oggi ha trent’anni: una generazione perduta. Comunque sembra che il risveglio dei politici a cui assistiamo in questi giorni sia sincero.
Va però detto che di fronte al problema immenso gli interventi finora decisi sembrano giusto un lieve palliativo, un primo piccolo passo nella direzione giusta, niente di più. Non voglio dilungarmi sul quadro macroeconomico: basta dire che senza crescita non ci sarà lavoro. Accanto alla crescita vanno però affrontate le cause strutturali che in tutti i paesi dell’Europa meridionale hanno causato, ben prima della crisi, una disoccupazione giovanile endemica, decisamente al di sopra della media europea.
Queste cause sono principalmente due: prima di tutto, le forti carenze del sistema di formazione professionale e la mancanza di un forte collegamento tra scuola e lavoro; secondo, l’inefficienza degli uffici per l’impiego. L’Italia per esempio è un paese che lascia soli i suoi giovani. Non c’è un sistema che li orienta, non ci sono scuole che li formano, non c’è nessun legame tra mondo del lavoro e mondo dell’istruzione.
Invece fin dagli anni novanta si è puntato su un modello pauperista di politiche del lavoro giovanile: un modello che forse ha creato milioni di posti di lavoro, ma flessibilizzando la situazione di chi già lavora in mansioni precarie, a basso reddito e a basso valore aggiunto. Il modello pauperista vale perfino nel campo universitario: l’Italia forma a tutt’oggi eccellenti scienziati, ma spesso gli offre solo impieghi precari, pagati con stipendi da fame.
Questa situazione chiede non tanto qualche modesto intervento congiunturale ma una svolta epocale: una vera e propria offensiva della formazione, scolastica, professionale, universitaria. In tutti i paesi del sud Europa è cominciata una discussione sul “modello duale” tedesco: sul fatto che in Germania la formazione professionale dei giovani si divide tra l’apprendistato in azienda e le lezioni nelle scuole professionali pubbliche. Sarebbe velleitario voler copiare questo modello. Ma certo l’idea di fondo è degna di attenzione, in un paese come l’Italia in cui le scuole professionali non insegnano una professione, in cui i corsi professionali regionali spesso sembrano orientati a far guadagnare chi li organizza e far lavorare chi ci insegna, ma non a dare una prospettiva a chi li frequenta.
E un altro punto salta all’occhio. Mentre l’Italia negli ultimi anni ha tagliato la spesa per istruzione e ricerca, la Germania ha potenziato gli investimenti. L’Italia uscirà dalla crisi dell’euro solo se e quando ci sarà una svolta nelle impostazioni delle politiche europee (e qui la responsabilità della Germania è enorme). Ma dalla sua sostanziale stagnazione - che dura da quasi vent’anni - il paese potrà uscire soltanto con un radicale cambio di passo. Un cambiamento che deve cominciare proprio dall’addio alle tentazioni pauperiste e dall’avvio di politiche che puntino a una formazione di alto livello.
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