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Il gesto di Ignazio Marino è l’ultimo atto di una soap opera

Ignazio Marino esce dal Campidoglio dopo aver ritirato le sue dimissioni, a Roma, il 29 ottobre 2015. (Fabio Cimaglia, Lapresse)

Ma è una tragedia greca o semplicemente una soap opera americana? Sorge spontanea questa domanda di fronte all’ultimo atto dello spettacolo in scena a Roma: della Guerra dei Roses tra Ignazio Marino e il Partito democratico (Pd). Quindi Marino ha ritirato le dimissioni da sindaco della capitale.

A livello strettamente formale vuol dire che torniamo alla casella di prima: il sindaco torna nel pieno dei suoi poteri, come se le sue dimissioni non fossero mai avvenute. Ma nella sostanza è vero il contrario. Il suo non è un atto di ricomposizione, ma di escalation del conflitto con un partito che chiamare “suo” risulta sempre più difficile. È una dichiarazione di guerra al Pd di Matteo Orfini e di Matteo Renzi, un atto che non lascia intravedere altra soluzione se non la rottura totale.

La soluzione sarà tragica almeno per Marino che in un modo o nell’altro, con le dimissioni in massa di assessori e consiglieri o con un voto di sfiducia del consiglio comunale, sarà definitivamente defenestrato. Ma sarà tragica, con ogni probabilità, anche per il Pd che corre il serio rischio di perdere il Campidoglio, nel – per il partito del premier – peggiore dei casi a favore un esponente del Movimento 5 stelle.

Allo stesso modo, risulta difficile attribuire allo spettacolo i caratteri di una tragedia greca, di uno di quei grandi conflitti epici in cui si scontrano protagonisti magari destinati alla catastrofe ma ugualmente capaci di lasciare il segno (e di insegnarci qualcosa sui grandi principi). La storia purtroppo non riesce ad andare al di là di una daily soap in cui parenti acrimoniosi e inaciditi se le danno di santa ragione, servendosi di trucchetti e tranelli, senza che lo spettatore esterno davvero riesca a capire dove, al di là di queste scaramucce, vogliano andare a parare.

Con il ritiro delle dimissioni, Marino avrebbe avuto il dovere di rendere chiara ed esplicita la sua posizione: vuole rompere con il Pd? Vuole ricandidarsi con una lista civica? Pensa sul serio di poter rimanere in carica? Invece veniamo a sapere che vuole confrontarsi con la sua maggioranza nel consiglio comunale. Ma a che pro?

Risulta difficile vedere un progetto politico dietro a questa mossa. Marino si presenta come quasi obbligato a questo suo ultimo passo: obbligato dal massiccio sostegno fornitogli dalle migliaia di manifestanti accorsi in piazza del Campidoglio (e dalle 50mila persone che hanno firmato in suo favore sui social media). Ma al di là del fatto che la manifestazione era tutt’altro che oceanica – è sceso in piazza circa l’uno per mille degli abitanti di Roma – Marino ancora una volta rischia di cadere nell’auto inganno. Certo c’è una minoranza di romani sempre fedeli a lui: sono quelle persone che, con buone ragioni, citano la sua opera di moralizzazione e di pulizia nel comune e nelle aziende municipalizzate. Ma non a caso gli ultimi sondaggi dicono che, nel caso si ricandidasse, Marino potrebbe contare sul voto del 15-20 percento dei cittadini: non soltanto il suo partito, ma anche gran parte dei suoi elettori gli hanno voltato le spalle. Una gran parte dei romani esprime giudizi tutt’altro che lusinghieri sul sindaco uscente (e provvisoriamente rientrante). E le sue mosse tese a riaprire la partita difficilmente accresceranno la sua popolarità: sembrano piuttosto confinate nella logica di una guerra tutta interna alla politica che non comunica più un bel niente alla città.

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