La scissione di Matteo Renzi peserà sul Pd e sul governo
La notizia sembra uscita direttamente da un manicomio. Per settimane tutti i leader del Partito democratico – da Nicola Zingaretti a Matteo Renzi, dal renzianissimo capogruppo al senato Andrea Marcucci ad Andrea Orlando – hanno lavorato fianco a fianco, uniti come non mai negli ultimi cinque anni, per creare la coalizione con il Movimento 5 stelle. E sono pure riusciti in questo mezzo miracolo, tenendo insieme la squadra – al solito litigiosissima – dei democratici, e facendo i conti con un dissenso assai circoscritto, quello di Carlo Calenda e Matteo Richetti.
Era troppo bello per essere vero. Infatti Renzi ha trovato un modo assai originale per festeggiare la ritrovata unità. Appena c’è stato il giuramento del governo, e quello di viceministri e sottosegretari, l’ex presidente del consiglio ha annunciato che intende lasciare il Pd, formando subito gruppi parlamentari separati, creando poi un nuovo movimento politico.
A prima vista è una bella opera di teatro dell’assurdo. Per mesi proprio Renzi aveva promesso fuoco e fiamme, inclusa la scissione del partito, se Zingaretti avesse aperto anche solo cautamente ai cinquestelle. Poi un bel giorno di agosto – Matteo Salvini aveva appena decretato la crisi del governo guidato da Lega e M5s – Renzi si sveglia e decreta la svolta a 180 gradi, tirandosi dietro un riluttante Zingaretti: tutti uniti, Pd e M5s, per salvare l’Italia da Salvini. E guai a non fare questa coalizione.
Dichiarazioni e indiscrezioni
Renzi ha avuto quello che voleva. Per ringraziare se ne va regalandoci forse la prima scissione di un partito argomentata non da conflitti insormontabili su con chi allearsi o su quali politiche seguire al governo, ma da considerazioni alquanto generiche sulla natura di quel partito che ormai gli sta stretto, troppo stretto.
Non gli piace il Pd “organizzato scientificamente in correnti e impegnato in una faticosa e autoreferenziale ricerca dell’unità come bene supremo”, ha detto in un’intervista al quotidiano La Repubblica.
Questo non vuol dire che l’uscita di Renzi dal Pd sia un atto insensato
Avrebbe invece voluto il partito sognato al momento della sua fondazione nel 2007, “come grande intuizione di un partito all’americana capace di riconoscersi in un leader carismatico”. E non si fa molta fatica a indovinare quale “leader carismatico” piacerebbe a Matteo Renzi.
Potremmo liquidare il tutto tornando sulle indiscrezioni che giravano a Roma nei giorni della svolta repentina di Renzi a favore della coalizione con il M5s. Voleva questa soluzione, si diceva, solo perché eventuali elezioni anticipate a ottobre-novembre lo avrebbero messo fuori gioco, togliendogli il tempo per la scissione e per far fronte a liste elettorali del Pd depurate dai renziani. Con la scissione messa in atto ora il politico fiorentino non fa che confermare questi retroscena.
Due partiti in lotta
Tuttavia, questo non vuol dire affatto che l’uscita di Renzi dal Pd sia un atto insensato. Fin dall’inizio il Partito democratico si è davvero presentato come “un insieme di correnti”, come accusa lui, invece che come una comunità politica. Sono rimasti famigerati i famosi “caminetti” tra capocorrente ai tempi di Veltroni e Bersani: caminetti in cui si decidevano tutte le questioni rilevanti al di fuori degli organi del partito.
Le cose sono peggiorate quando Renzi nella veste di “rottamatore” ha lanciato la sua offensiva per conquistare la leadership del Pd, diventando nel dicembre del 2013 segretario del partito e nel febbraio del 2014 capo del governo. Da allora sotto al tetto del Pd hanno convissuto due partiti, armati l’uno contro l’altro, tenuti insieme da sospetti, da sgambetti e da odio reciproco.
Renzi oggi si presenta come povera vittima di queste dinamiche – “fuoco amico”– , ma ha avuto la sua parte attiva. Era lui, una volta diventato segretario del Pd, che non intraprendeva nessun atto per coinvolgere le minoranze dell’ex “ditta” bersaniana nella gestione del partito, puntando invece sulla loro emarginazione e umiliazione, come dimostravano quel “Fassina chi?” rivolto a Stefano Fassina, o i sarcasmi contro Gianni Cuperlo, a suo tempo presidente del Pd, che puntualmente rassegnò le dimissioni.
Sia come sia: al di là delle questioni politiche da anni ormai i conflitti nel Pd hanno una forte connotazione psichiatrica. E forse questa vecchia coppia incurabilmente inacidita di renziani e antirenziani ha tutto da guadagnare da una separazione ufficiale.
Anche la crisi di governo appena conclusa è stata la dimostrazione lampante che già erano separati in casa: Renzi parlava apertamente dei “suoi” deputati e senatori, facendo capire che il loro voto non veniva affatto orientato dai voleri degli organi di partito, ma veniva deciso all’interno della corrente, in ultima analisi da lui.
Meglio una fine con terrore che il terrore senza fine, decreta un proverbio tedesco. Del resto cambierebbe poco per la salute della coalizione appena varata: con o senza l’ufficializzazione della scissione, Renzi è, e sarà sempre, in grado di staccare la spina al governo Conte.