La morte di Al Zawahiri è un problema per i taliban
L’attacco con i droni che il 2 agosto ha ucciso il leader di Al Qaeda Ayman al Zawahiri ha fatto precipitare i taliban in una crisi interna. Il gruppo è stato umiliato dall’azione militare unilaterale degli Stati Uniti e, dopo che aveva tenacemente sostenuto di non concedere asilo ai “terroristi”, le sue affermazioni si sono rivelate delle menzogne.
Questo mette a repentaglio due obiettivi fondamentali – e contraddittori – dell’organizzazione islamista: da un lato mantenere la legittimità presso la sua base, di cui fanno parte incalliti combattenti armati e ideologi religiosi; dall’altro ottenere l’assistenza economica di cui hanno un disperato bisogno da parte di una comunità internazionale preoccupata per i legami “terroristici” del gruppo.
Inizialmente i taliban probabilmente risponderanno all’attentato contro Al Zawahiri con un atteggiamento di sfida, insistendo nel dire che non stavano dando riparo a un terrorista e intensificando le resistenze nei confronti delle continue richieste internazionali, tra cui riaprire le scuole alle adolescenti e formare un governo più inclusivo. Potrebbero anche adottare una linea più dura sui delicati negoziati con Washington per l’erogazione delle forniture umanitarie e lo sblocco dei beni della Banca centrale afgana.
Ma sul lungo termine, l’uccisione di Al Zawahiri potrebbe esasperare le spaccature esistenti nell’organizzazione. Questi scossoni interni potrebbero da una parte aprire la strada all’emergere di fazioni più concilianti, ma potrebbero anche portare a disfunzioni che avrebbero un impatto sul governo.
L’organizzazione dovrà placare la sua base. Non basterà semplicemente andare avanti minimizzando l’attacco contro Al Zuwahiri
Da circa un anno i taliban celebrano l’espulsione delle forze militari straniere e affermano che non permetteranno mai un loro ritorno. Per questo l’attacco dei droni è stato così imbarazzante sia per la leadership taliban sia per i comandanti e i militanti che da vent’anni si battono contro le forze statunitensi. Da quando hanno preso il potere, i taliban hanno fatto intendere chiaramente quanto sia prioritario per loro il mantenimento della legittimità presso questi due bacini di consenso: hanno ospitato cerimonie che onoravano le famiglie degli attentatori suicidi, tenuto parate militari in cui esibivano gli armamenti sottratti agli statunitensi, il tutto alienandosi le simpatie della gente comune ponendo limiti all’istruzione femminile e reprimendo giornalisti e attivisti. L’organizzazione dovrà placare la sua base incollerita. Non basterà semplicemente andare avanti minimizzando l’attacco.
I taliban inoltre potrebbero dover affrontare nuove minacce da parte del gruppo Stato islamico Khorasan (Iskp). L’Iskp, rivale anche di Al Qaeda, ha già beneficiato dell’uccisione di Al Zawahiri, uno dei suoi più grandi nemici. Ma potrebbe anche ottenere un vantaggio in termini di propaganda accusando i taliban di non essere riusciti a prevedere il raid, o perfino di esserne stati complici. I combattenti dell’Iskp si sono chiaramente galvanizzati e questa settimana hanno commesso degli attentati contro gli sciiti che osservavano la festività dell’Ashura (il capodanno islamico).
Il raid che ha ucciso Al Zawahiri rischia di allontanare anche gli altri alleati estremisti presenti in Afghanistan, dai taliban pachistani a militanti di Lashkar-e-Taiba, tutti allineati con Al Qaeda. Questi gruppi sono uniti dal loro odio verso le forze militari statunitensi, soprattutto quando queste sono schierate sul suolo di paesi musulmani. Ironia della sorte, le nuove tensioni potrebbero rafforzare la narrazione secondo cui l’organizzazione stia prendendo le distanze dai “terroristi”, ma potrebbero anche aumentare il rischio che questi gruppi rivolgano le proprie armi contro i taliban stessi.
Inoltre, nell’immediato, Washington non sarà ansiosa di dialogare con i taliban. Gli statunitensi sono furiosi per il fatto che Al Zawahiri vivesse al centro di Kabul, e ritengono che alcuni leader taliban sapessero della sua presenza lì. Ora che gli Stati Uniti hanno adottato la linea dura, e non sono in vena di discutere un ampliamento dell’assistenza o lo sblocco dei fondi bancari afgani, i taliban hanno scarsi incentivi a prendere in considerazione una posizione più conciliante.
Ma anche le relazioni interne ai taliban potrebbero diventare tossiche. Le divisioni interne del gruppo sono note: ci sono divergenze tra la base combattente e i rappresentanti civili che da tempo hanno sede nell’ufficio politico a Doha; tra i mullah ideologizzati e i leader con una mentalità più pratica che sono a favore di una maggiore integrazione nella comunità internazionale.
Molti leader taliban probabilmente non sono contenti che Al Zawahiri fosse rifugiato a Kabul. Altri probabilmente sono furiosi per il fatto che la sua presenza abbia sottoposto il gruppo a una pesante umiliazione e a una potenziale crisi di legittimità interna. E altri ancora forse temono che sia stato qualcuno dai ranghi dell’organizzazione a fornire alla Cia la posizione di Al Zawahiri. Lui stesso una volta avrebbe confidato a Osama bin Laden che non si fidava dei leader taliban, e che loro non si fidavano di lui.
L’attacco missilistico ha umiliato i taliban. Adesso l’organizzazione deve affrontare l’ira della sua base. E farà ancor più difficoltà a garantirsi il supporto internazionale per affrontare la crisi umanitaria e quella economica, in buona parte alimentate dalle sanzioni che impediscono l’afflusso di denaro nel paese. Questo stato di cose significa che le fazioni a favore di posizioni più pragmatiche e concilianti potrebbero avere un’opportunità. Ma gli ideologi e gli estremisti non si piegheranno.
Nel passato la leadership suprema dei taliban è riuscita a reprimere con successo le rivolte interne, spesso con la forza. Potrebbe accadere anche stavolta. Ma era più facile farlo quando l’organizzazione era un’insurrezione armata, con molte meno sollecitazioni, senza le pesanti responsabilità di governare e far fronte alle sfide politiche, senza un rivale infervorato come l’Iskp, e senza un evento esterno che potesse causare degli shock interni così drammatici.
In passato le divisioni istituzionali erano eventi causali. Oggi potrebbero diventare pericoli corrosivi. Se queste tensioni interne dovessero farsi logoranti, la gestione amministrativa e il controllo politico potrebbero trovarsi di fronte a delle minacce e fornire aperture per nuovi gruppi armati di opposizione. Questo implicherebbe il rischio di nuove violenze e nuova guerra civile. Nello scenario più estremo, il missile che ha dilaniato Al Zawahiri potrebbe fare a pezzi i taliban che, nel corso dei loro circa trent’anni di esistenza, non hanno mai attraversato una crisi tanto grave.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
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