La storia dell’immigrazione a Roma svela il vero volto della città
A piedi, a cavallo, sui carretti, a dorso di mulo, in gruppo, da soli, con le famiglie al seguito, giovani, giovanissimi, anziani, donne, uomini, carichi di masserizie e pieni di speranza: questa era l’immagine che alle stazioni di posta e alle osterie lungo le vie consolari, in prossimità della città, si palesava agli occhi degli osservatori già nel corso degli anni settanta dell’ottocento. La breccia di Porta Pia era stata aperta nel 1870, la capitale era stata proclamata nel 1871 e molto rapidamente Roma stava cambiando faccia.
L’apertura di grandi cantieri richiamava lavoratori nell’edilizia, l’espansione della popolazione aumentava, la richiesta di cibo stimolava l’agricoltura, che ancora era un elemento centrale dell’economia urbana e periurbana, richiamando altra popolazione e aprendo nuovi mercati. Le nuove funzioni legate alla capitale favorivano l’arrivo di tecnici e amministratori dal Piemonte sabaudo, che portavano con loro finanziamenti, saperi e interessi. Nel giro di pochi anni la città di Roma conosce un incremento demografico velocissimo, che colpisce per la sua intensità: dal 1871 al 1901 gli abitanti raddoppiano passando da circa 200mila a circa 400mila. E la crescita non si arresta. Nei trent’anni successivi l’espansione prosegue senza sosta: gli abitanti della città nel corso degli anni trenta del novecento iniziano a superare abbondantemente il milione.
All’aumento della popolazione corrisponde un allargamento del bacino migratorio della capitale. Nella prima fase, oltre ai piemontesi, i nuovi arrivati giungevano prevalentemente dalle zone che circondavano la città, rafforzando una tradizione secolare. Le aree di provenienza già negli anni ottanta dell’ottocento si estendono al sud, in particolare alla Ciociaria, e alle regioni limitrofe: Abruzzo, Marche, Umbria e Campania. Alla fine del secolo iniziano gli arrivi da regioni più lontane, come Puglia e Calabria al sud e Veneto al nord.
Casa e lavoro
A Roma, le migrazioni uniscono l’Italia. Non si tratta ovviamente di un movimento privo di conflitti e difficoltà. I lavoratori immigrati vengono impiegati soprattutto nell’edilizia con paghe basse e bassissime. La città si estende progressivamente fuori dai confini delle mura storiche e l’espansione edilizia funziona da motore per un’economia di altissimi profitti e bassi salari. Il pericolo di una guerra tra immigrati e lavoratori locali viene scongiurato da un’attività sindacale serrata e durissima, che coinvolge immediatamente i nuovi arrivati. La camera del lavoro di Roma nasce nel 1892 e fin da subito organizza in modo efficace il mondo dell’immigrazione della capitale, raggiungendo importanti successi soprattutto nelle vertenze che riguardano i cantieri.
Ma i problemi del lavoro non sono gli unici. La casa è un’altra grande questione che emerge con forza. Tuguri, scantinati, baracche, case autocostruite, sovraffollate, insalubri: il panorama sociale che emerge nelle inchieste, che già nei primi anni del novecento raccontano i luoghi dove si ammassano i nuovi arrivati è rivelatore di una condizione abitativa precaria e piena di problemi. Grazie alle denunce e alle mobilitazioni vengono però avviate iniziative che riescono a dare una casa vera ai lavoratori: edilizia pubblica, cooperative, interventi calmierati che portano alla nascita di quartieri come San Lorenzo, Testaccio, Monteverde.
La storia dell’immigrazione a Roma prosegue anche dopo la prima guerra mondiale e si mantiene come un tratto distintivo che segna lo sviluppo della città. Gli anni del fascismo portano a nuovi flussi e a un’ulteriore crescita, che determina anche una nuova fase di estensione geografica degli insediamenti. Le borgate, nate in periferia con l’obiettivo di collocare segmenti di popolazione proveniente da altre zone della città, soprattutto dal centro, iniziano ad accogliere anche nuclei di immigrati, che diventano sempre più numerosi dopo la seconda guerra mondiale.
Durante la ricostruzione e il miracolo economico i flussi crescono ancora e nei primi anni settanta la città arriva a contare quasi tre milioni di abitanti. Nel secondo dopoguerra in tutta Italia, ma soprattutto a Roma lo sviluppo dell’immigrazione fotografa la distanza drammatica tra la realtà e le istituzioni: coloro che giungevano in città non potevano ottenere la residenza a meno che non dimostrassero di avere un contratto di lavoro, con ripercussioni pesanti legate all’irregolarità amministrativa e all’impossibilità di pieno accesso ai diritti sociali. Erano ancora in vigore le leggi fasciste contro l’urbanesimo, abolite solo nel 1961 sotto la spinta delle mobilitazioni del movimento operaio, che ebbero l’epicentro proprio nelle zone più periferiche del comune di Roma: a Ostia, a Labaro, a Finocchio, sul confine della città, che permetteva a molti di vivere e lavorare a Roma nonostante le restrizioni amministrative.
A partire dagli anni settanta le immigrazioni non coinvolgono solo persone provenienti dall’Italia, ma cominciano a interessare anche la popolazione che arriva dall’estero. Negli ultimi cinquant’anni la novità più dirompente è caratterizzata proprio dall’immigrazione straniera: nel 2020 gli stranieri nell’area metropolitana di Roma rappresentano circa il 13 per cento del totale dei residenti. Un mondo in movimento, proveniente da Europa, Africa, Asia e Americhe che attraversa le stesse strade percorse un secolo prima dai loro predecessori provenienti dalle altre regioni italiane, contribuendo come allora all’espansione della città sul territorio, anche oggi non senza conflitti e contraddizioni, che sono sotto gli occhi di tutti.
Perché tornare oggi a riscoprire e raccontare l’immigrazione a Roma e la sua storia? Perché è una storia viva, che non smette d’insegnare qualcosa a chi vuole leggerla con curiosità e attenzione. Quelle milioni di persone che hanno trovato un posto in città lo hanno fatto grazie a fatica e determinazione, facendosi largo tra sospetti, ostilità e conflitti. Ma trovando anche fiducia, sostegno, complicità in tanti contesti. E alla fine, tanto rapidamente quanto a volte inconsapevolmente, sono diventate parte integrante del tessuto sociale della metropoli. Gli immigrati a Roma sono diventati indistinguibili dal resto della popolazione con una velocità che probabilmente non ha eguali nel resto d’Italia.
Cosa significa questo? È ancora vero? Quale è stato il peso dell’esperienza migratoria nel percorso che hanno compiuto le tante generazioni che hanno scelto di venire a Roma? In che modo sono cambiati i quartieri e i tanti tasselli che compongono la città a seguito dell’arrivo dell’immigrazione? La risposta a queste domande è oggetto della ricerca 150 anni di immigrazioni a Roma capitale: storia, memoria, territori, nata dalla collaborazione tra Biblioteche di Roma e Cnr Ismed. Sicuramente il tema delle immigrazioni e della loro storia può rappresentare un punto di vista inedito con cui imparare a rileggere lo sviluppo della città, rinunciando agli approcci catastrofisti che troppo spesso ormai accompagnano il discorso pubblico su Roma.
Di volta in volta, strada per strada, anno dopo anno, quartiere per quartiere, la composizione della città ha saputo trovare seppur faticosamente uno spazio per i nuovi arrivati, che sembravano inizialmente sempre troppi, ma che alla fine col passare del tempo diventavano sempre meno diversi dagli altri. Oggi quando si parla di migrazioni si pensa immediatamente a un’alterità irriducibile, lontana, altra dalla propria esperienza quotidiana. La città di Roma ci permette di rovesciare questa prospettiva e ci insegna che i “romani da sette generazioni” sono sempre stati pochissimi e che ognuno ha un pezzo di storia migratoria da riscoprire.
L’articolo propone alcuni spunti tratti dalla relazione di apertura al convegno Le immigrazioni a Roma capitale dal 1870 alla seconda guerra mondiale__, in diretta Facebook su Biblioteche di Roma e ISMed.Cnr che si terrà il prossimo 6 novembre 2020 a partire dalle 9.30.