Libri letti
• The family Fang, Kevin Wilson
• Wild abandon, Joe Dunthorne
• The end of everything, Megan Abbott
• Bury me deep, Megan Abbott
• Your voice in my head, Emma Forrest
Libri comprati
• The family Fang, Kevin Wilson
• Letters to Monica, Philip Larkin
• Bury me deep, Megan Abbott
• Wild abandon, Joe Dunthorne
• Brother of the more famous Jack, Barbara Trapido
• Those guys have all the fun, James Andrew Miller e Tom Shales
Uno dei motivi per cui vado volentieri a trovare il mio fratellastro, che vive in una bella casa nel Sussex, è che conosce un tizio che intrattiene i bambini sparando limoni da un bazooka fatto in casa. Non spara i limoni contro qualcosa, ma è proprio questo il bello: un frutto giallissimo sparato a decine di metri nel cielo azzurro è uno degli spettacoli più fantastici che madre natura possa offrire (anche se, diciamocelo, si serve di un congegno esplosivo fatto dall’uomo).
Nel primo romanzo di Kevin Wilson, The family Fang, Buster Fang resta ferito gravemente quando, mentre sta lavorando a un articolo per una rivista, viene colpito da una patata sparata da un congegno simile, che gli cambia i connotati. Sono sicurissimo che The family Fang mi sarebbe piaciuto comunque, ma a volte hai proprio bisogno di quel collegamento del tutto inaspettato e così azzeccato da sembrare sospetto.
Buster viene investito dalla patata a pagina 32 della mia edizione, proprio al punto in cui, se siete di quelli che lasciano i libri a metà, vi state chiedendo se andare avanti o no. E poi, all’improvviso, come fosse un segno divino, vi ritrovate a pensare: “Ehi! Ma è lo sparalimoni di Sam! Solo che loro usano patate!”. In passato, scrivevo regolarmente recensioni per alcuni dei giornali più rispettabili in circolazione: ora capite perché ho smesso. Non riuscivo mai a trovare il modo di infilare lo sparalimoni nelle mie sobrie e accurate valutazioni. Eppure a volte ce n’è bisogno.
Ho scoperto The family Fang curiosando un po’ in giro, una buona vecchia abitudine che internet, la crisi delle librerie e la mia politica di acquisti dei libri ridicolmente ottimistica (vedi tutte le mie precedenti rubriche) ha reso quasi obsoleta. L’ho preso in mano attratto dalla generosa ed entusiastica segnalazione di Ann Pratchett in copertina – “In una parola: geniale” – e non l’ho rimesso a posto perché, a una più attenta indagine, sembrava un romanzo che almeno in parte parlava di arte e del perché la facciamo, e io adoro i libri su questo argomento.
L’ho portato fino alla cassa perché ero da poco arrivato alla conclusione che avevo bisogno di leggere libri di autori più giovani, non tanto per dovere professionale, ma perché sentivo una certa carenza di gioventù nella mia dieta narrativa. Negli ultimi due mesi avevo letto Next di James Hynes e Fuori a rubar cavalli di Per Petterson, due romanzi su uomini anziani che ripercorrono la loro vita passata, e la magistrale vita di Dickens dell’esperta biografa Claire Tomalin: e all’improvviso avevo voglia di sapere cosa pensano i giovani. Questo mese, tutti gli autori che ho letto hanno fra i trenta e i quarant’anni, che è il massimo del giovane a cui posso spingermi senza che mi venga voglia di impiccarmi.
The family Fang è proprio il tipo di romanzo che uno sogna di trovare gironzolando per venti minuti in libreria. È ambizioso, è divertente, prende sul serio i suoi personaggi e ha un’anima: nel senso di quel meraviglioso dolore che la narrativa può dare quando vorrebbe il meglio per tutti noi e contemporaneamente accetta il fatto che il più delle volte non si arriva neppure alla sufficienza. Buster e Annie Fang sono i due figli adulti degli artisti di strada Camille e Caleb Fang, che li coinvolgevano nei loro spettacoli quando erano piccoli, mettendoli spesso e volentieri in imbarazzo. Una serie di calamità (il bazooka sparapatate per Buster, un’imprevista nudità con sesso poco saggio per Annie) costringono fratello e sorella a tornare a casa nel Tennessee, dove i genitori continuano a lavorare e sperano ancora di convincere i figli che gli happening familiari sono la loro vera vocazione artistica.
Capite che nelle mani sbagliate un soggetto del genere poteva finire molto male: poteva diventare stucchevolmente stravagante, o troppo compiaciuto, o tutto fumo e niente arrosto. Ma Kevin Wilson aggira ogni ostacolo con grande sicurezza. Si diverte con le premesse – le imprese dei Fang sono fantasiose e credibili – ma alla fine il suo è un romanzo su genitori e figli, quindi tutto è al servizio di uno scopo più serio, anche se la serietà non appesantisce mai il libro. The family Fang è stato e sarà paragonato a un film di Wes Anderson, anche se Anderson non mi è mai sembrato molto interessato al lato psicologico dei suoi personaggi.
E in ogni caso, nonostante l’ambientazione beatnik, Wilson racconta la sua storia in modo molto coerente. Mi ha ricordato, invece, il minuzioso realismo di Anne Tyler, l’amore che dispensa ai suoi personaggi, e il modo in cui i loro passi falsi, le loro incomprensioni e i loro rimpianti possono riassumere in qualche modo i tanti modi diversi in cui tutti sbagliamo.
“L’arte, se ti sta a cuore veramente, vale tutta l’infelicità e la sofferenza che può procurare. Se per raggiungere quel traguardo devi ferire qualcuno, è giusto farlo. Se il risultato è abbastanza bello, abbastanza strano, abbastanza memorabile, non ha importanza: ne sarà valsa la pena”. Così la pensa Caleb Fang, subito dopo aver sparato al suo compagno in una performance particolarmente audace. Ho il sospetto che molti di noi tra quelli che passano le giornate a inventare storie, a un certo punto abbiano sposato una filosofia del genere. O almeno abbiano sperato di essere abbastanza crudeli e determinati da poterlo fare. The family Fang è un romanzo che si domanda se questo particolare mito della creazione artistica sia davvero una cosa buona, dimostrando contemporaneamente che l’arte dotata di senso morale non deve per forza essere convenzionale.
Il secondo romanzo di Joe Dunthorne, Wild abandon, è ambientato in una comune del Galles, ma somiglia un po’ a The family Fang. Dunthorne e Wilson condividono la convinzione che le battute non compromettano necessariamente la serietà di un romanzo e, anzi, possano aiutare ad accorciare la distanza tra scrittore e lettore rendendo più godibile il libro. Tutti e due gli autori sono interessati al modo in cui l’eccentricità dei genitori possa complicare la vita dei figli. In Wild abandon, Kate, un’adolescente gallese cresciuta in una comune, si scopre sempre più attratta dalla periferia suburbana fatta di villette a schiera, dove risiede la famiglia del suo ragazzo, un tipo piuttosto insignificante. Nel frattempo Albert, suo fratello minore, precoce ma inevitabilmente ingenuo, si prepara all’apocalisse imminente, attesa con fiducia da una delle tante persone che gli fanno, un po’ precariamente, da genitori.
Mia cognata e la sua famiglia vivono nel Galles (è qui che entra in scena lo sparalimoni) e, come i personaggi di Dunthorne, hanno regolarmente a che fare con polytunnel e Wwoof. Wwoof! polytunnel! Parole che prima di leggere questo romanzo non avevo mai visto scritte da nessuna parte. E di sicuro non immaginavo che una di loro cominciasse con un’improbabile e inutile doppia vu doppia (il polytunnel è una serra tubolare dove si coltivano piante recalcitranti e infelici; e il Wwoof è un’organizzazione per giovani agricoltori biologici inspiegabilmente desiderosi di lavorare la terra gratis). Come Wilson, neanche Dunthorne è interessato a fare della satira, anche se il mondo che descrive gliene offrirebbe più di un’occasione: entrambi non disdegnano una calamità ogni tanto, ma solo per poter scrutare più da vicino quello che succede nella testa e nel cuore della gente. Dunthorne è anche poeta e organizzatore di eventi di spoken word, ed è una bella persona. E qui dimostra di avere tutte le carte in regola per durare. È uno scrittore comico elegante, accessibile e interessante, e credo proprio che il suo lavoro darà gioia a un sacco di persone per molti anni ancora.
È imprudente affidarsi alla narrativa contemporanea come fonte d’informazione? Perché la sorprendente notizia che ho appreso leggendo Wild abandon e The end of everything di Megan Abbott è che le ragazzine adolescenti vogliono andare a letto con gli uomini di mezza età (i romanzi non sbagliano mai, che io sappia. Ma se, come me, siete uomini di mezza età, vi consiglio comunque di fare un paio di verifiche prima di prendere iniziative di qualsiasi tipo). In Wild abandon, Kate cerca di sedurre il padre del suo ragazzo, Geraint, che trova più attraente del figlio. E in The end of everything c’è un caos sessuale trasgressivo e a tratti inquietante, che ha per protagoniste ragazzine che hanno a malapena raggiunto la pubertà. Abbott è una scrittrice straordinaria, che ho scoperto attraverso un mezzo insolito, Facebook, anche se non saprei dirvi esattamente come. Ora sono a metà di uno dei suoi quattro romanzi noir, Bury me deep, che è intelligente, malinconico e convulso, e paragonabile alla narrativa storica di Sarah Walters per come rispetta e insieme reinventa le sue influenze di genere. Ma The end of everything è un’altra cosa: è a metà tra il giallo tradizionale e il romanzo letterario, ed è psicologicamente sofisticato e coraggioso.
Il mistero al centro di The end of everything è la scomparsa di un’adolescente di nome Evie. E anche se il mistero viene risolto, non è di questo che parla il romanzo. Durante l’assenza di Evie, la sua migliore amica e vicina di casa, Lizzie, che è anche la voce narrante, cerca di ricostruire quello che è successo: fornisce alla polizia informazioni cruciali ma in modo poco collaborativo e un po’ subdolo, insinuandosi nella vita e nel dolore della famiglia della ragazza. Ci prova con il padre di Evie – anche se non è del tutto consapevole delle sue azioni – e fa di tutto per essere al centro dell’attenzione. Intanto sembra sempre più probabile che Evie sia fuggita con un padre di famiglia del quartiere, forse volontariamente, mentre la madre divorziata di Lizzie intrattiene una relazione clandestina notturna ma sconvolgentemente visibile.
Il sesso aleggia sulla periferia come una specie di nebbia tropicale: sfuma i confini di ogni cosa, rallenta il passo di tutti, confonde i pensieri e i sentimenti, la consapevolezza istintiva di quello che è giusto e sbagliato. Ognuno, o piuttosto ognuna, sembra contemporaneamente vittima e artefice della sua stessa sventura. Solo una donna potrebbe aver scritto un romanzo così, questo è certo. Nessun uomo avrebbe avuto il coraggio di insinuare che ragazzine poco più che adolescenti possano essere così complici, così corresponsabili di questa cappa di desideri sessuali repressi. Abbott si muove su questo terreno scivoloso con grande perizia: al contrario dei suoi personaggi, lei sa quello che fa.
Mi ero appena ripreso da The end of everything quando ho cominciato a leggere l’autobiografia di Emma Forrest, Your voice in my head Anche in questo libro c’è parecchia sessualità oscura e dannata, insieme ad autolesionismo, tentati suicidi, disturbi alimentari e una profonda, inguaribile tristezza. E appena ho finito di leggerlo ho giurato a me stesso di non rivolgere mai più la parola a una ragazzina o anche solo a chi lo è stata, per paura di dire qualcosa che possa essere frainteso e usato contro di me. Sono quasi sicuro di non essere in alcun modo responsabile dei problemi di Forrest, ma quando una ragazza così giovane e carina si trova in guai così grossi, è difficile, come uomo, non sentirsi oscuramente colpevoli.
Ci sono due uomini al centro di questo libro scarno, lieve in modo ammirevole e appassionante. Uno è lo psicoterapeuta di Forrest, il saggio e amabile dottor R.; l’altro è un fidanzato divo del cinema, citato solo con le lettere GH, che stanno per Gypsy Husband (marito zingaro). Tutti e due la lasciano: il dottor R. muore, a soli 53 anni, di un cancro che con grande generosità tiene nascosto fino alla fine ai suoi pazienti; GH cambia idea sul loro rapporto intenso e appassionato nel bel mezzo, sembra, di un volo transatlantico. Una recensione estremamente irritante apparsa sul mio giornale preferito accusa Forrest di essersi “vantata” di GH: eppure è chiaro che la sua celebrità ha inciso sul loro rapporto e sulla sua brusca fine. Se fossi oggetto di una campagna d’odio su internet solo perché ho una fidanzata bella e famosa, anch’io vorrei scriverne.
Sembra che Emma si sia lasciata alle spalle le sue terribili crisi depressive, e questa autobiografia lo dimostra. Ma la vicinanza di certi riferimenti legati a quel periodo tormentato è preoccupante: una canzone dei Beirut, l’insediamento di Obama, e Russell Brand. Il dolore peggiore potrà anche essere passato, ma non da molto. Emma Forrest è una scrittrice talmente brava e affascinante che si può solo sperare che veda quel dolore rimpicciolirsi sempre di più nel suo specchietto retrovisore, e che continui a scrivere tanti altri romanzi e sceneggiature in cui le sue cicatrici saranno sempre meno visibili.
Be’, a me i giovani piacciono.
Quattro libri fantastici, pieni di vita, riflessioni e idee, e soprattutto senza ombra di astuzie narrative. Cosa che per me non è necessariamente un male, e non solo perché nutro un’avversione profonda per la sperimentazione letteraria. Questi ragazzi non hanno tempo da perdere. Hanno troppe cose da dire, troppi personaggi da raccontare, troppe battute da fare. Solo uno di loro, purtroppo, parla di un congegno fatto in casa che spara frutti e ortaggi, ma il bello della letteratura – dell’arte in generale – è proprio questo: ognuno deve trovare il suo sparalimoni.
*Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 934, 3 febbraio 2012*
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it