L’Europa del Manifesto di Ventotene nascerà solo se lo vorremo tutti
Un conto sarebbe stato arrivare a Ventotene gli anni scorsi, quando il peggio poteva essere evitato. Diverso è arrivarci per un festival letterario nell’estate del 2016, quando tutto è ormai libero di accadere. Ma poiché la letteratura ha spesso come sottofondo l’arte della beffa, a Ventotene quest’anno, pochi giorni prima degli scrittori, sono arrivate le personalità politiche più potenti di Italia, Francia, Germania per agitare tutte insieme l’ampolla di un miracolo: cambiare tutto, senza modificare nulla.
Certi apprendisti stregoni vorrebbero incidere sulla realtà con le loro arti, ma quel che ottengono di solito è contrariare gli spettri.
Altiero Spinelli era un marxista che detestava Stalin, un italiano che leggeva Cervantes in spagnolo, Flaubert in francese, Kant in tedesco, Dostoevskij in russo, Omero in greco antico.
Poiché aveva biasimato pubblicamente i casi in cui la dittatura del proletariato si era tradotta in dittatura del partito, fu bollato come trozkista ed espulso dal Partito comunista italiano. Al tempo stesso, a causa delle sue opinioni politiche, per meglio dire della sua visione del mondo, trascorse molti anni in carcere durante il regime fascista.
Dal 1928 al 1937 passò il suo tempo nelle carceri di Lucca, Viterbo, Civitavecchia. Dal 1937 al 1939 fu mandato in confino a Ponza, e dunque a Ventotene fino al 1943. Qui, battuto dolcemente dal vento di levante e crudelmente dal maestrale quando d’inverno la pioggia è così fredda che taglia la faccia come lame di rasoio, circondato dal mirto, dal lentisco, dal lamento straziante delle berte che forse rese folle l’equipaggio di Ulisse, davanti agli occhi il mare, se non il mare, il carcere di Santo Stefano dove ogni notte tre secondini dai piedi sporchi impiccano Gaetano Bresci, confinato su questa piccola isola del Tirreno insieme a Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann, elaborò il Manifesto di Ventotene.
Il centro della paralisi
Il testo pone le basi di un’Europa che nei decenni successivi ha vissuto monca – per la parte esistente (l’antifascismo) in modo abbastanza compiuto tenendo conto di che cos’era il nostro continente negli anni quaranta; e per la parte mancante (ciò che, liberata dai fascismi e dai pericoli dell’ortodossia stalinista, l’Europa avrebbe dovuto diventare) in modo sempre più ampolloso e retorico.
Nel periodo più cupo della nostra storia, Ventotene è stato un luogo vivissimo di elaborazione del pensiero
Sono dubbioso sulla vita oltre la morte, ma credo nei fantasmi shakespeariani. Dunque non scommetterei sul fatto che le ossa di Altiero Spinelli si siano rivoltate su se stesse mentre Angela Merkel, Matteo Renzi, François Hollande allungavano qualche giorno fa le loro dita sul marmo della sua tomba. Sono certo però che lo spettro del padre dell’Europa Altiero Spinelli si sia molto addolorato osservando questi tre leader, che potrebbero essere usciti dai capitoli mancanti di Bouvard e Pécuchet, mentre, circondati dai fotografi, elaboravano con tanta retorica la digestione della propria colazione diplomatica a proposito di un sogno per il quale i loro antenati avevano rischiato la vita. Eugenio Colorni fu assassinato nel 1944 dai fascisti della banca Koch.
Nel periodo più cupo della nostra storia, Ventotene è stato un luogo vivissimo di elaborazione del pensiero. Oggi rischia di diventare il simbolo di qualcosa che non c’è se non come confusa dichiarazione d’intenti. Il simbolo di qualcosa che quasi non esiste… Il che significa che Ventotene è la tomba simbolica d’Europa (una sorta di contraltare poetico della Banca centrale europea) se commettiamo l’errore di considerarlo il teatro tra i cui velluti si celebra un sogno a fiamma bassa. Va invece molto meglio, tenendo conto di ciò che è successo nell’ultimo quindicennio, se – sempre sul piano simbolico – ci abituiamo a pensare Ventotene come il centro della paralisi.
Fu uno dei padri letterari di questo continente, James Joyce, a dichiarare che aveva scelto di ambientare l’Ulisse nella città in cui era nato, Dublino, perché all’inizio del novecento gli sembrava “il centro della paralisi”. Una città provinciale, reazionaria, arretrata, schiava di una potenza politica straniera (l’Inghilterra) e di una spirituale (il Vaticano), avara, cinica e ingrata verso i suoi migliori figli, e tuttavia, a patto che si avesse il coraggio di attraversarla verticalmente, di inoltrarsi a occhi aperti nella sua notte come fanno lo Stephen Dedalus, l’Harold Bloom, la Molly Bloom della finzione letteraria, capace, quello stesso centro della paralisi, di farci giungere in contatto con la parte più profonda e preziosa della nostra civiltà. Una parte ancora viva.
A neanche un secolo dal romanzo di Joyce, è l’Europa tutta a essere diventata il centro della paralisi.
L’Europa è uno dei più incredibili esperimenti umani mai condotti
Ho l’impressione che il Manifesto di Ventotene in questi anni sia stato tanto citato quanto poco letto. E magari citarlo senza raccontarne i contenuti è convenuto a qualcuno. Se i volenterosi apologeti dell’Europa unita si fossero davvero premurati di prestare fede al testo del Manifesto, si renderebbero oggi conto con estrema facilità che il nesso causa-effetto davanti ai problemi che rischiano di decretare la fine dell’Unione è invertito rispetto a quanto divulgano ogni giorno dalle cancellerie del continente.
Populismi, nazionalismi, qualunquismi sono effetti, non cause. Sono la conseguenza di un continente che crede alla burocrazia più che al suo stesso popolo, a una buffa oligarchia di grigio vestita più che alla democrazia, agli equilibrismi sulla moneta unica più che alle idee su cui l’economia dovrebbe fondarsi, a una continua nevrotica limatura del rapporto tra deficit e pil – su cui la Vienna del dottor Sigmund Freud e del signor Thomas Bernhard avrebbe molto da dire – più che al compito che uno stupefacente laboratorio filosofico, politico, artistico, linguistico, spirituale qual è stato per secoli il nostro continente, affida, se non prescrive, ai suoi eredi.
L’Europa è uno dei più incredibili esperimenti umani mai condotti. È una tragedia quando questo patrimonio finisce nel gabinetto del dottor Caligari. Ma la tragedia si ripropone come farsa se quello stesso patrimonio viene recapitato nello studio del dottor Azzecca-garbugli, i cui bizantinismi – è bene ricordarlo – non erano fini a se stessi, poiché temevano i latrati di una muta di cani da guardia, che a propria volta obbedivano a un padrone.
Il tradimento europeo
Il Manifesto di Ventotene individua nella sua prima parte tutta una serie di conquiste della modernità che l’epoca degli stati totalitari era riuscita a cavalcare svuotandole di senso, fino a rovesciarle: fa appello alla libertà dell’uomo, alla possibilità dei cittadini di partecipare autenticamente alla vita pubblica; rivendica la giustizia sociale; denuncia il modo in cui lo strapotere delle banche e delle oligarchie economiche può compromettere di fatto il funzionamento di una democrazia compiuta, cioè la possibilità che gli individui che ne fanno parte riescano a sviluppare la loro personalità in modo pieno; parla della libertà di movimento di esseri umani e merci; individua in un regime economico che favorisce le colossali fortune di pochi e l’indigenza di molti uno dei principali ostacoli alla mobilità sociale e alla promozione individuale; auspica lo spirito critico contro il dogmatismo autoritario.
Il Manifesto di Ventotene è facilmente consultabile. È breve, ispirato, chiaro, democratico, antiautoritario, laico, indubitabilmente progressista
Nella sua seconda parte, dopo aver previsto il crollo dei regimi totalitari, il Manifesto traccia i compiti del dopoguerra, individuando in un’Europa unita e federale il soggetto che meglio può interpretarli, “un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali” e che “spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari”. E ancora: “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”.
Il Manifesto ammonisce in particolare le rinate democrazie: “Mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pre-totalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi”. Il che, in uno scenario molto diverso da quello che potevano immaginare gli estensori del Manifesto, è proprio ciò che sta accadendo.
Il Manifesto di Ventotene è facilmente consultabile. È breve, ispirato, chiaro, democratico, antiautoritario, laico, indubitabilmente progressista. Chiunque, leggendolo, può rendersi conto con estrema facilità di come l’attuale Unione europea, per come è stata congegnata, e ancor più per come sta funzionando, ne rappresenti un convincente tradimento.
Di conseguenza, o la smettiamo di richiamarci con tanta ignoranza (o con tanta ipocrisia) al Manifesto di Ventotene per difendere le ragioni dell’attuale Ue; oppure l’onestà dovrebbe imporci di farlo al solo scopo di auspicarne un drastico mutamento di connotati. Questa Ue ha troppo poco dell’Europa immaginata dal Manifesto per esserne considerata l’erede. Affermare il contrario significa offendere la memoria di Spinelli, Rossi, Colorni, Hirschmann.
A seconda che i leader politici europei decidano o meno di riformare l’Unione, in modo profondo e in tempi brevi, capiremo se le dita protese di Merkel, Renzi, Hollande sulla tomba di Altiero Spinelli cercassero l’altro giorno ispirazione o formulassero piuttosto uno scongiuro perché lo spettro dell’invocato non li perseguiti ogni notte degli anni a venire. Ma poiché ciò a cui fanno appello gli estensori del Manifesto è “l’Europa dei popoli” anche noi abbiamo il dovere di fare qualcosa.
Questo testo è stato letto durante la quinta edizione del festival letterario Gita al Faro, che si è svolto a Ventotene dal 23 al 28 agosto 2016.