Sapere la verità su Babbo Natale non ci fa diventare adulti
Come tanti analfabeti di ritorno per eccesso di informazione, continuiamo a credere a Babbo Natale anche dopo che i cancelli dell’infanzia ci si sono richiusi alle spalle. L’incanto di un essere soprannaturale che in concomitanza della Natività mette la sua natura ubiqua a disposizione di ogni bambino del pianeta per consegnare doni si mostra in apparenza come un solido spartiacque tra infanzia e mondo degli adulti.
Questi ultimi, che dovrebbero possedere la verità su Babbo Natale (la semplice circostanza che il portadoni non esista al di là della tradizione, il fatto che sia un prodotto culturale, uno strumento educativo, non un rappresentante della sfera del magico), si impegnano a occultarla, anno dopo anno, con dichiarati intenti pedagogici: sostenendo l’esistenza di Babbo Natale a uso dei bambini fino a quando rimangono tali, innesterebbero sullo sguardo incantato dei propri figli – se mai queste due cose possono stare insieme senza corrompersi a vicenda – il meccanismo del do ut des: regali in cambio di obbedienza.
Le prime docce fredde
Finito il lungo tirocinio che dai primi vagiti giunge a una confidenza basilare con testi scritti, suoni, immagini (ovvero, gli strumenti con cui gli adulti cercano normalmente di interpretare il mondo e dargli un senso), per i bambini arrivano anche le prime docce fredde. Lo spartiacque è destinato a cedere con precisione rituale quando di regola, in seguito al consueto passaparola tra ragazzini in finto regime di clandestinità, un fratello o un cugino maggiore si fanno portatori di una rivelazione – “Babbo Natale non esiste” – che ha per il destinatario un effetto traumatico e riempie il mittente di crudele soddisfazione. L’attraversamento di Babbo Natale acquista in questo modo tutti i crismi di una prova iniziatica. Da una parte dà ai novelli iniziati (il fratello, il cugino maggiore) finalmente l’occasione di esercitare – sia pure per interposizione degli adulti – il “potere della conoscenza”. Dall’altra, chi sostiene la prova acquista suo malgrado, al costo di un bruciante disincanto, la prima piccola patente di adultità.
Nel rivelare “come stanno le cose” ai loro piccoli amici, che in questo modo ricevono un doloroso viatico per il superamento della linea d’ombra, gli iniziati non possono inoltre esimersi dall’ulteriore ebbrezza di restituire la violenza subita quando furono loro a essere strappati brutalmente dal mondo del soprannaturale.
In genere siamo convinti che Babbo Natale così come lo conosciamo esista da secoli
Ma a questo punto? A questo punto non è detto che si diventi adulti. Entrati tra le file degli iniziati, dovremmo essere capaci di elaborare il lutto per la “morte di Babbo Natale” scollando il celebre portadoni dal dominio del magico per ricollocarlo, con precisione e sicurezza, nel mondo dei semplici fenomeni culturali. Il problema è che la percezione sociale di Babbo Natale è tale che questa opera di secolarizzazione manchi quasi immancabilmente il suo bersaglio. Come a dire che, crollato uno spartiacque, se ne ricostituisce immediatamente un altro, di natura diversa, rimandando sine die la nostra definitiva emancipazione rispetto a questo affaire.
In genere siamo convinti che Babbo Natale così come lo conosciamo, o meglio, così come il suo ectoplasma ci ha visitato per tutta la vita (barba bianca, pancione, giubba rossa con i bordi di pelliccia bianca, aspetto gioviale e rassicurante) esista da secoli. Ci lamentiamo al limite del fatto che la sua figura, che erroneamente potremmo considerare intatta da epoche vagamente preindustriali, sia biecamente sfruttata dalla macchina del consumo più sfrenato. Ma come reagiremmo al pensiero che Babbo Natale, più che essere cavalcato dalla società dei consumi, sia cresciuto di pari passo con essa fino a diventare, oggi, uno dei suoi rappresentanti più emblematici? E alla circostanza che la sua perenne quanto inafferrabile presenza nell’infinito gioco di specchi che regola il traffico del nostro immaginario è dovuta in buona parte alla Coca-Cola?
L’adozione di Babbo Natale da parte della Coca-Cola avvenne quando il portadoni si era ormai quasi del tutto sbarazzato delle sue origini cristiane. Approdato a New York nel diciassettesimo secolo come residuato di una tradizione maturata per oltre mille anni, quello che un tempo era stato san Nicola, vescovo di Mira, si presentava nei primi decenni del novecento americano già simbolo del mondo dei consumi.
Bersaglio privilegiato
L’impresa della Coca-Cola non consistette di conseguenza nell’aver determinato questo processo di scristianizzazione ma nell’averlo semmai cristallizzato, rendendolo in qualche modo definitivo.
Spesso le grandi imprese hanno bisogno di un pretesto o un incidente di percorso. La riscrittura di Santa Claus a opera della Coca-Cola trovò questo pretesto nel dottor Harvey Wiley, un personaggio il cui semplice nome evocherà per gli uomini della futura multinazionale scenari da incubo.
Il dottor Wiley lavorava al dipartimento di chimica degli Stati Uniti e diventò noto nel 1903, quando fece partire una crociata salutista che troverà nella bibita con le bollicine un bersaglio privilegiato.
“Gli Stati Uniti d’America contro 40 barili di Coca-Cola”. Per quanto ridicolo, questo fu il nome con cui fu chiamato il procedimento giudiziario. La denominazione si deve al sequestro di alcuni barili di Coca-Cola che Wiley fece disporre nel 1907. L’episodio arrivò al culmine di una campagna denigratoria per la quale era stato sobillato il meglio del fervore paranoide nazionale: Martha Allen, a capo del movimento delle Donne per la temperanza cristiana – “so per certo di un giovanotto che è diventato una vera nullità a causa della sua abitudine alla Coca-Cola”– e il metodista evangelista George Stuart – “si è saputo che l’uso di Coca-Cola ha portato in una scuola femminile a deprecabili festini notturni. In più la bibita tiene svegli i ragazzi esponendoli alle tentazioni della masturbazione” – a cui si accompagnava una nutrita schiera di opinionisti infervorati, cronisti dalla penna facile o semplici approfittatori pronti a giurare che la Coca-Cola conteneva imprecisate e terribili sostanze velenose.
Il processo fu celebrato a Chattanooga e fu un buon prototipo di quegli show sotto le coltri di procedimento giudiziario che appassioneranno gli States negli anni a venire. Si contestava alla bibita di essere adulterata con sostanze pericolose (nello specifico la caffeina) e di avere una denominazione ingannevole.
Il tribunale di Chattanooga ospitò una sfilata di deposizioni in stato di sovraeccitazione, pronte a dipingere la Coca-Cola come un perfetto distillato del demonio o, al contrario, come presenza immacolata in un mondo di avvoltoi. I giornali seguirono il dibattimento come se si fosse trattato di una finale di superbowl; furono talmente contagiati dal clima scatenato che si respirava in città che l’Atlanta Georgian poté titolare: “Otto Coca-Cola contengono abbastanza caffeina da uccidere”. Chimici e farmacologi presentarono dettagliatissime deposizioni tecniche che mandarono in confusione i membri della giuria popolare. Si discusse, si controdiscusse, si pubblicarono fiumi di inchiostro inservibile e alla fine il giudice Edward Terry Sanford chiuse lo show: dopo aver espresso la sua opinione ordinò praticamente alla giuria di riunirsi e di tornare in aula con un verdetto favorevole alla Coca-Cola.
Il colpo di genio
La bibita non rischiò più di essere ritirata dal commercio. L’unico cambiamento riguarderà la strategia pubblicitaria dell’azienda. Gli avvocati difensori della Coca-Cola non avevano contestato gli effetti negativi della caffeina sui giovanissimi – avevano però cercato di aggirare l’ostacolo dichiarando che i più piccoli non erano consumatori abituali della bibita, il che contrastava con le pubblicità del periodo che ritraevano bambini intenti a bere Coca-Cola insieme ai genitori. Così, dopo il 1911, fu proibito l’utilizzo di materiale pubblicitario in cui ci fossero bambini di età inferiore a dodici anni nell’atto di bere Coca-Cola. Se i danni erano stati limitati, l’azienda rischiava di perdere una fetta fondamentale di consumatori.
L’espediente fu quello di arruolare un messaggero, un intermediario tra infanzia e mondo degli adulti e la scelta cadde su Santa Claus
Siamo nel 1931: la Coca-Cola, che fino a qualche tempo prima era soprattutto servita nei bar, poteva adesso essere acquistata in confezioni da conservarsi nei frigoriferi di casa. Si trattò di un cambiamento epocale. Per i fatturati della compagnia incominciò a essere decisivo l’esercito di donne che ogni giorno si recavano a fare la spesa. Di conseguenza, cresceva l’importanza dei persuasori neanche troppo occulti che orientavano le massaie in gran parte dei loro acquisti: i loro figli.
Bisognava concepire una campagna pubblicitaria in grado di rivolgersi ai bambini senza mai metterli al centro della scena. Il compito fu affidato a Haddon Sundblom, un bizzarro disegnatore di origine svedese che si faceva perdonare i suoi ritardi clamorosi grazie alla forza e all’inconfondibilità del segno grafico. L’espediente usato fu quello di arruolare un messaggero, un intermediario tra infanzia e mondo degli adulti che fosse in grado di catalizzare l’immaginazione e i desideri dei bambini. La scelta cadde appunto su Santa Claus.
Il colpo di genio di Sundblom fu quello di far convivere l’aura di soprannaturalità che circondava Babbo Natale con l’estetica dell’uomo comune. Basta elfi, creature dei boschi, personaggi provenienti da immaginari e culture lontane: il nuovo Babbo Natale doveva essere partorito dal cuore magico dell’America del ventesimo secolo. Sundblom utilizzò come modello l’uomo della porta accanto, vale a dire il suo vicino di casa Lou Patience, un commesso viaggiatore che l’American way of life aveva fornito di una corporatura robusta, un volto allegro entro i limiti del sospetto, una fiducia nel presente e un’ecolalica vitalità che debordava da tutti i pori della sua persona. A Lou Patience, Sundblom allungò la barba e arroventò le guance, aumentò di qualche misura il girovita, sostituì gli abiti borghesi con la celebre casacca rossa e bianca, e così i cartelloni pubblicitari si riempirono di figure al limite dell’iperrealismo: fragorosamente comuni eppure in qualche modo provenienti da un altro pianeta.
L’eretico cuculo
L’ingresso di Santa Claus in Europa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale fu accolto con sospetto. Tra i vari episodi di “resistenza”, il più importante a livello simbolico rimane quello riportato da Lévi-Strauss nel suo saggio Babbo Natale giustiziato. Si tratta di un fatto di cronaca accaduto in Francia nel 1951. Il successo con cui anche in terra transalpina Santa Claus andava diffondendosi fu interpretato come un sintomo della paganizzazione delle festività natalizie.
La chiesa protestante si unì una volta tanto alle gerarchie cattoliche tuonando contro una coabitazione (quella del 25 dicembre) per descrivere la quale si ricorreva alla metafora del cuculo, che occupa un nido altrui a scopi ursupativi. La polemica si riscaldò con l’avvicinarsi del Natale tanto che, il 24 dicembre, la cattedrale di Digione fu teatro di un evento che sembrò una parodia dei roghi medioevali. Duecentocinquanta bambini furono fatti radunare davanti al cancello della chiesa, dove un pupazzo di Babbo Natale fu prima impiccato, poi trascinato sul sagrato e qui bruciato pubblicamente come eretico.
Santa Claus è un perfetto simbolo del nostro apparato tecnico, produttivo, mediatico
Qual è però la vera natura del rapporto che la Coca-Cola intrattiene con Santa Claus? Il fatto che Babbo Natale abbia avuto nell’azienda di Atlanta una grandiosa cassa di risonanza è sufficiente per farci dire che la Coca-Cola è a tutti gli effetti il papà di Babbo Natale? Non potrebbe essere anche il contrario? Non è possibile che la Coca-Cola, nella campagna pubblicitaria di Haddon Sundblom, abbia piuttosto cercato di evocare uno spirito guida?
La benevolenza di Santa Claus, la sua disarmata quanto inattaccabile capacità di portare gioia e buonumore a grandi e piccini è il traguardo che la Coca-Cola si proponeva di far tagliare al proprio impalpabile e radioso messaggio di paradiso in terra. La sua ubiquità richiama le aspirazioni della bibita a essere distribuita in tutto il mondo e, in fondo, l’aspirazione più segreta e inconfessabile di ogni merce (quella di essere posseduta da tutti i consumatori del pianeta. Quindi, in definitiva, di possederli).
Il Natale consumistico ha molti punti di contatto con le feriae precristiane, per esempio i saturnali, in cui lo scambio orgiastico di doni, il concetto di spreco servivano a esorcizzare la vis mortifera delle potenze invernali, che minacciavano i raccolti e quindi la stessa sopravvivenza della comunità.
Un altro esempio che viene in mente con facilità è quello di Halloween, la festa di Ognissanti quando i bambini, travestiti da spiriti dei morti, girano di casa in casa, ricevendo dai vivi-adulti i piccoli doni simbolici che serviranno a rispedire le loro rappresentazioni nell’oltretomba almeno per un altro anno.
Con la nascita di Santa Claus (in particolare dopo il suo incontro con la Coca-Cola) questo esorcismo subisce un cambiamento epocale. Interrotto il confronto ravvicinato tra vivi e morti, il compito di distribuire i doni, di placare gli spiriti dei defunti in maniera simbolica, di annichilire il pensiero della fine è affidato a un mediatore. È come se gli adulti a un certo punto abbiano firmato una delega che li sollevi dall’avere rapporti troppo intimi con Thanatos, affidando il “lavoro sporco” a un monopolista vestito di rosso i cui poteri (ubiquità, capacità pressoché illimitata di disporre dei frutti dei nostri sistemi produttivi) sembrano far impallidire le caratteristiche presenti nei portatori di doni delle epoche passate.
Nella notte di Natale, allora, ci sono effettivamente due figure in concorrenza tra di loro – la nascita del dio cristiano, che offre vita eterna attraverso la morte carnale; la battaglia di Santa Claus contro la morte carnale, combattuta attraverso una totalitaria distribuzione di regali.
Lo spirito del capitalismo avanzato
Quale tra questi due sistemi per confrontarci con il sentimento della fine sia oggi più praticato è sin troppo evidente. Resta solo da ricordare che Santa Claus è un perfetto simbolo del nostro apparato tecnico, produttivo, mediatico. Affidando a lui il compito di neutralizzare il sentimento della fine, non facciamo che rimettere le nostre speranze di amnesia sulla mortalità nel sistema che governa la società in cui viviamo – quella che oggi potremmo troppo semplicisticamente chiamare globalizzazione. Babbo Natale è dunque lo spirito del capitalismo avanzato.
All’esorcismo contenuto nella distribuzione di regali di cui è indiscusso protagonista si rifanno, con sfumature diverse, praticamente tutte le narrazioni scaturite dall’attività delle imprese postmoderne. È curioso allora che l’uccisione del dio cristiano secondo Nietzche, agevolata dal senso di protezione offertoci dal progresso tecnico e scientifico in antitesi al terrore millenario dell’uomo di fronte allo stato di natura, anziché portarci ad affrontare con lucidità la circostanza della nostra finitudine ci spinga verso un nuovo rifiuto dell’irreversibile, una rimozione ottenuta proprio attraverso l’apparato che avrebbe dovuto essere lo strumento della nostra emancipazione. La sensazione è che, quanto più la rimozione si fa profonda tanto più la dimensione dell’esorcismo è costretta a crescere in potenza e pervasività.
“Non morirete mai!”, dice Babbo Natale attraversando sulla slitta gli scacchieri delle nostre città, e ricevendo conferme dai movimenti delle presse negli opifici, dagli impulsi delle antenne radiofoniche e televisive, dall’insonnia delle rotative tipografiche, dalle turbine delle centrali elettriche, dai codici binari dei calcolatori elettronici. E tuttavia, disseppellendo l’istanza disperata che si cela dietro questo messaggio benaugurale, facendosi spazio a fatica tra le luci, i colori, il traffico, le carte da regalo, spingendoci nell’occhio del ciclone che alimenta il movimento orgiastico della notte di Natale, è possibile riuscire a cogliere un lapsus, un sovvertimento, forse anche un’ancora di salvezza: un riflesso da lemure sulla giubba di Santa Claus e, nel suo messaggio, l’anagramma dopomoderno del memento mori.
Nel 2005 Nicola Lagioia ha scritto il libro Babbo Natale. Dove si racconta come la Coca-Cola ha plasmato il nostro immaginario, da cui questo testo riprende alcuni passaggi.