La crisi che fa soffrire banche, imprese e famiglie
I dati parlano di 187,3 miliardi di euro. È un altro record, quello toccato a febbraio dalle sofferenze bancarie – quei crediti che non saranno riscossi perché le imprese o le famiglie debitrici si trovano in uno stato d’insolvenza: cioè, non gli è possibile trovare il denaro sufficiente a rispettare le scadenze del pagamento dei mutui. L’allarme lo ha lanciato l’Associazione bancaria italiana, l’associazione che rappresenta gli istituti di credito italiani, nel suo rapporto mensile sull’economia e i mercati finanziari-creditizi, pubblicato nel pomeriggio di mercoledì.
La montagna delle sofferenze ha ormai raggiunto un valore superiore al 10 per cento del pil italiano. L’incremento annuale è impressionante: +26,9 per cento dal febbraio 2014, cioè 25,2 miliardi di euro. I numeri di chi non riesce a ripagare il denaro preso a prestito fotografano un paese in affanno dopo sette anni di crisi e rendono assordanti le sirene, troppo spesso agitate, di una ripresa che non arriva. Tarda a materializzarsi anche il lieve miglioramento nella probabilità per le imprese di entrare in difficoltà (il cosiddetto tasso di ingresso in sofferenza), miglioramento previsto all’inizio del mese da Abi e dall’agenzia di valutazione Cerved.
Secondo le due associazioni, questo avrebbe raggiunto il picco alla fine del 2014 e sarebbe destinato a diminuire nei prossimi 24 mesi. Anche nel 2015, tuttavia, l’andamento si è confermato sul terreno negativo: da gennaio a febbraio le sofferenze sono aumentate di 1,8 miliardi di euro. Questo significa che, oggi, il 9,8 per cento dei finanziamenti concessi dalle banche italiane è a rischio. Alla fine del 2007 questa quota era al 2,8 per cento.
Spiccano le vulnerabilità delle piccole e medie imprese: circa un quinto dei crediti concessi a queste aziende è in sofferenza. Il fenomeno prende così i contorni di uno stillicidio, che desertifica quella che fino a pochi decenni fa era considerata la spina dorsale del sistema produttivo italiano, il segreto del miracolo imprenditoriale del paese. Secondo i dati di Cribis D&B (che fornisce informazioni economiche e commerciali sulle aziende) nel 2014 hanno chiuso i battenti per fallimento 15.605 aziende, soprattutto medie e piccole. Un aumento del 9,6 per cento rispetto al 2013, quando a chiudere erano state 14.269.
L’osservatorio sui fallimenti del Cerved ha calcolato che, dal 2008 a oggi, oltre 82mila imprese, che impiegavano circa un milione di persone, hanno dovuto interrompere la loro attività.
Sembra il capitolo finale della favola del “calabrone Italia”: quello che sembra non poter volare, eppure lo fa. Nelle pieghe del mito si nascondevano in realtà le debolezze strutturali di un’economia sottocapitalizzata, anche per le inadeguatezze di un sistema finanziario costituito da percettori di rendita.
Emergono ora tutte le inadeguatezze di un sistema produttivo dominato da animal spirits che hanno sottovalutato l’importanza della ricerca e si sono disinteressati della qualità del sistema educativo, dietro al patto implicito con uno stato clientelare, che ne ha accettato a lungo l’elusione fiscale e tollerato che la competizione al ribasso sulla pelle dei lavoratori fosse la risposta alle sfide poste dall’emergere di nuove potenze economiche globali.