“Il Venezuela fa accendere il riscaldamento nelle case del Massachusetts”, dice un’inserzione a tutta pagina pubblicata sui principali giornali statunitensi dalla Pdvsa, la società petrolifera statale del Venezuela, e dalla Citgo, una sua controllata con sede a Houston, in Texas.

L’inserzione si riferisce a un programma varato con l’appoggio del presidente venezuelano Hugo Chávez per vendere petrolio a prezzi scontati ad alcune comunità disagiate di Boston, del South Bronx e di altre località degli Stati Uniti. È uno dei gesti più paradossali mai compiuti nel dialogo fra il nord e il sud del mondo. L’accordo è stato raggiunto dopo che un gruppo di senatori americani ha scritto una lettera a nove grandi compagnie petrolifere, chiedendo loro di donare una parte dei profitti record realizzati in quest’ultimo periodo per aiutare alcuni cittadini disagiati a pagarsi le bollette del riscaldamento. L’unica a rispondere è stata la Citgo.

La proposta di Chávez di offrire combustibile scontato per il riscaldamento non è che una delle molte sfide che l’America Latina continua a lanciare ai grandi strateghi di Washington. Il dilemma è stato ulteriormente amplificato dalle proteste scoppiate durante la visita ufficiale di Bush in Argentina il mese scorso, in occasione del vertice delle Americhe.

Tutto l’emisfero, dal Venezuela all’Argentina, sta sfuggendo al controllo: da un capo all’altro del continente sono al potere governi di centrosinistra, e perfino nell’America centrale – che ancora soffre per le conseguenze della “guerra al terrorismo” voluta dal presidente Reagan – risulta difficile tenere a bada le tensioni. Le popolazioni indigene sono diventate molto più attive e riescono oggi a esercitare un peso molto maggiore, in particolare in Bolivia e in Ecuador.

Intanto si rafforza l’integrazione economica interna, e così si accelera la fine del relativo isolamento del continente, che risale alla conquista spagnola. Crescono inoltre la collaborazione e gli scambi economici tra i paesi del sud del mondo, soprattutto tra i grandi, come il Brasile, il Sudafrica e l’India.

Nel complesso, l’America Latina sta aumentando gli scambi commerciali e i rapporti con l’Unione europea e con la Cina. Il che comporta qualche inconveniente, ma potrebbe sostenere la crescita economica, specie nei paesi come il Brasile e il Cile, che esportano materie prime.

Il Venezuela è probabilmente il paese latinoamericano che intrattiene i rapporti più stretti con la Cina. Caracas vuole vendere sempre più petrolio ai cinesi, nel quadro dei suoi sforzi per ridurre la propria dipendenza energetica dal governo statunitense che gli è ostile. Oggi nella regione la vera spina nel fianco di Washington è senz’altro il Venezuela, da cui viene quasi il 15 per cento del petrolio importato dagli Stati Uniti. Inoltre, il paese sta per entrare nel Mercosur, il principale blocco commerciale del Sudamerica, che comprende già l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e l’Uruguay, e rappresenta un’alternativa al cosiddetto Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) sostenuto da Washington.

Come altrove nel mondo, anche in questa regione stanno emergendo modelli sociali ed economici alternativi. Sono sorti grandi movimenti popolari, che mirano a espandere l’integrazione tra paesi. I loro programmi vanno ben al di là delle questioni strettamente economiche, e riguardano i diritti umani, i problemi ambientali, l’indipendenza culturale e i contatti fra i popoli. A questi movimenti è stata affibbiata la ridicola definizione di “noglobal”, solo perché sono favorevoli a una globalizzazione che faccia gli interessi dei popoli anziché degli investitori e delle istituzioni finanziarie.

Però i problemi degli Stati Uniti nelle Americhe non sono solo a sud, ma anche a nord. Per ovvi motivi, Washington aveva sperato di poter contare sul Canada, sul Venezuela e su altre risorse petrolifere non provenienti dal Medio Oriente. Oggi però i rapporti del Canada con gli Usa sono più “tesi e ostili” che mai. Questo, fra l’altro, perché Washington ha respinto certe decisioni assunte dal Nafta, che favorivano il vicino del nord. Come scrive Joel Brinkley sul New York Times, “anche per effetto di quel rifiuto, Ottawa sta rafforzando i suoi rapporti con Pechino. Secondo alcuni funzionari, il Canada potrebbe spostare una parte significativa dei suoi scambi commerciali – soprattutto di prodotti petroliferi – dagli Stati Uniti alla Cina”.

Alienandosi perfino le simpatie del Canada, Washington ha dimostrato un autentico talento. Del resto, la politica degli Stati Uniti verso l’America Latina non fa che accrescere il loro isolamento internazionale. Un esempio recente: per il quattordicesimo anno consecutivo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha bocciato l’embargo commerciale statunitense contro Cuba. L’esito del voto sulla risoluzione è stato di 182 voti contrari e solo quattro favorevoli: quelli degli Stati Uniti, di Israele, delle isole Marshall e di Palau. Si è astenuta la Micronesia.

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